Ho sempre avuto reazioni contrastanti rispetto al puntuale rapporto Censis che ogni anno, a dicembre, arriva sui nostri media. Ne apprezzo l’analisi culturale, il taglio non unicamente e noiosamente descrittivo. Ma raramente condivido il tono moralistico, l’approccio spesso giudicante verso il comportamento degli italiani e i loro valori. Provo lo stesso sentimento in questi giorni, leggendo le considerazioni dell’ultimo rapporto, il 57esimo, dove gli italiani sono definiti “sonnambuli”, incapaci di reagire alle trasformazioni globali e ai grandi eventi che ci incalzano.

Sia chiaro: il Censis analizza anche i motivi strutturali che sono alla base di questa presunta letargia. E la relativa paura degli italiani. Quella, anzitutto, del clima “impazzito”, temuto praticamente da quasi tutti gli italiani, quella della crisi economica e sociale, dei flussi migratori, delle guerre, dei rischi demografici e ambientali, della possibile siccità futura (temuta da oltre il 68%!), del debito pubblico, del problema energetico, dell’incapacità eventuale di difendersi militarmente, del problema delle pensioni e della sanità pubblica.

Di fronte a tutto ciò, una gamma immensa di problemi, gli italiani si rifugiano nel privato, nella cura delle proprie relazioni e hobby. Il lavoro non è più una spinta, anzi, l’assoluta maggioranza ritiene assurdo metterlo al centro dell’esistenza. Si va avanti grazie, insomma, alla cura del privato, senza sperare in alcuna utopia né tantomeno aiuto o cambiamento da una politica del tutto frammentata e priva di una visione globale.

Due sono le riflessioni che, a mio avviso, allora si possono fare: gli italiani, dice il Censis, sono in preda all’impotenza e come paralizzati. Se tutto è emergenza, nulla lo è e quindi si continua a vivere nel quotidiano, cercando di sopravvivere. Ma questo, lungi dall’essere un atteggiamento criticabile, è una scelta del tutto razionale. Perché le paure degli italiani sono radicate in fatti veri.

Anzi, gli italiani, a differenza della politica, che cerca di rassicurare e di dire che tutto va bene, sanno che non è vero che le cose vanno bene. Vedono le migliaia di immigrati che arrivano, piangono per i morti bambini nel Mediterraneo; vedono il clima che cambia, i 30 gradi a ottobre, i 40 a luglio, l’impennata dei costi alimentari, la crisi delle derrate; vedono che non ci sono più bambini, che per una tac bisogna aspettare un anno, vedono soprattutto le guerre proprio accanto a noi, capiscono che un paese attaccato potrebbe essere abbandonato, vedono i leader mondiali e quelli nazionali confusi, senza visione, loro sì attaccati ai social media e ai media in generale senza che questo porti alcun frutto.

Di fronte a tutto ciò, sentirsi spaventati, impotenti, angosciati è quasi il minimo. Scegliere di andare avanti, curando il privato, i propri affetti, senza dedicare l’intera esistenza al lavoro è una scelta logica e comprensibile. Chi può, come dimostra il rapporto, se ne va dal paese e sono quelli che il cambiamento lo mettono in atto davvero. Gli altri, appunto, sopravvivono, cercando di farsi bastare ciò che hanno, scettici anche – finalmente! – nel fatto che i consumi possano darci la felicità.

Ci sono poche critiche, a mio avviso dunque, da fare agli italiani. Invece, se volessimo muovere una critica pesante quella sarebbe da fare al sistema mediatico italiano, siti, giornali, tv. Perché quell’impotenza, quella rassegnazione e quella angoscia è sì ancorata a fatti reali. Ma potrebbe forse diminuire, invece che crescere sempre di più, se l’informazione smettesse di essere uno specchio di ciò che accade, anzi peggio uno specchio propulsivo della violenza dei fatti, senza invece fornire nessuna analisi profonda, fatta col tono emotivo giusto.

Se, come spiega sempre il Censis, la fiducia nei tg diminuisce mentre aumenta quella verso i social, ci sarà un motivo. I media sono diventati non solo inutili, ma dannosi. Nel racconto delle guerre questo è stato assolutamente evidente: la guerra in Ucraina ha portato nelle nostre case corpi a pezzi, mani con unghie laccate di donne morte, immagini di bambini straziati. Così la guerra oggi nella striscia di Gaza. Il problema è che queste immagini tremende si affiancano a quelle della cronaca giornaliera dei morti in tutte le maniere. Ormai qualsiasi fatto tragico viene morbosamente rilanciato sull’etere. Spesso, tra l’altro, si tratta di morti assurde, ad esempio, avvenute a 5000 chilometri da noi, che non avrebbero ragion d’essere neanche se fossero accadute in Italia.

I giornali e i tg insomma rispecchiano l’aspetto orrorifico della vita, rilanciandolo e ampliandolo. Lo stesso sul clima: si limitano alla cronaca dei disastri, senza spiegare, senza approfondire. Lo stesso sull’immigrazione. Ma a che serve un’informazione così? A che serve se non ad aumentare, raddoppiare, triplicare la violenza degli eventi, rendendo le persone ancora più impotenti? Io credo che una riflessione su questo andrebbe davvero fatta. Non si possono incolpare le persone normali se sono travolte da un’informazione sbagliata.

Insomma, da un lato gli italiani sono coerenti con i fatti, perché a differenza di chi sta più in alto percepiscono e patiscono le vere emergenze. Dall’altro, la loro sofferenza è acuita da un sistema mediatico che, invece che sopire l’angoscia e provare a indicare vie di trasformazione, fa peggio. Allora non possiamo chiamarli sonnambuli, ma cittadini che capiscono ciò che sta accadendo. E provano ad andare avanti, nonostante il dolore, nonostante la paura, nonostante la rabbia.

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