Da qualche giorno fa discutere l’ultimo Rapporto Censis “Ipertrofia emotiva”. Non che le sentenze dell’istituto fondato nel 1964 da Giuseppe De Rita vadano prese sempre per oro colato. Difatti in passato non sono mancati suoi abbagli e miraggi, rifilati al pubblico plaudente e bocca buona come grandi rivelazioni sociologiche.

La bufala del “piccolo è bello”, palese minimalismo di stampo provincial-cattolico, con cui ci rimbambivano quando nell’economia mondiale tornava ad affermarsi il ruolo decisivo della dimensione, sotto forma di Grande Rete. In sequenza, la “fata morgana” dei distretti canonici, apoteosi democristiana dell’innovazione fai da te made in Italy, mentre in un’area semi-rurale californiana limitrofa all’Università di Stanford – Silicon Valley – si ponevano le basi del paradigma tecno-economico vincente dei milieux d’innovazione, per favorire il sistematico scambio innovativo (di prodotto e processo) tra ricerca scientifica e impresa. E così le produzioni distrettuali italiane migrarono a Timisoara o nel Far East.

Stavolta – però – il contenuto del report 2023 sembra aver colto nel segno, specie se messo in relazione con quello dell’anno precedente. L’attuale referto che stiamo diventando un popolo ormai impaurito e inerte al limite del sonnambulismo. Quando nel 2022 si riscontravano ancora tracce di uno stato d’animo sul “rabbioso”, che almeno segnalava la sopravvivenza di energie vitali, seppure volte al negativo. Una situazione che al momento attuale appare totalmente cambiata, stante l’assenza di reazioni in un sistema nervoso collettivo vittima di un apparente intervento di lobotomizzazione.

Difatti viene data per scomparsa l’araba fenice pubblica opinione, che non riesce più neppure a indignarsi davanti al decadimento della politica ridotta a guerra per bande, impegnate in un’ininterrotta campagna elettorale. E tutto questo mentre le situazioni ansiogene vanno aggravandosi: dalla crescita delle disuguaglianze e dei relativi impoverimenti alla liquidazione del Sistema Sanitario Nazionale; antico vanto del Paese ora ridotto a un reperto diroccato, oggetto di sistematici saccheggi chiamati privatizzazioni. La rete autostradale italiana, che fece gridare al miracolo negli anni del boom, oggi emette quotidiani bollettini sanitari che parlano di gallerie inagibili e ponti crollati. Mentre le mistificazioni ferroviarie occultano il problema di binari oltre al limite dell’usura, a seguito di un invecchiamento secolare. Terzi Valichi prospettati come la porta dei traffici verso l’Europa e che non saranno pronti prima del 2026 (data di scadenza del PNRR); e comunque non assicureranno i benefici attesi fino a quando non sarà sciolto il nodo di Voghera e quadruplicata la capacità di smistamento merci a Milano-Rogoredo (parole del vice ministro per le infrastrutture Edoardo Rixi).

Mitragliati da questa gragnuola di messaggi depressivi, gli italiani analizzati dal Censis paiono cercare fuga nel sonno profondo, da cui sperano di risvegliarsi in tempi migliori. Intanto se ci si muove lo si fa da sonnambuli. Ma è soltanto una questione italiana? Forse non sarà annichilito dalle troppe menzogne come i nostri compatrioti, ma la sindrome depressiva del nostro referto può essere estesa all’intero G7 – dagli Stati Uniti che si preparano al confronto presidenziale imbarazzante Trump-Biden e la Germania in caduta libera dopo che l’osannata Angela Merkel l’aveva messa in balia del fornitore russo per l’approvvigionamento energetico; dall’Olanda che sceglie come premier l’ennesimo energumeno sovranista alla Francia di Macron, in ostaggio della piazza e dei suoi kingmaker (la Banca e la Massoneria d’Oltralpe).

Insomma, una pandemia politica che affligge l’intera democrazia a Occidente. Patologia di cui diagnosi e prognosi sono note. Con l’avvento, a partire dagli anni ’80. di ricette per la governance della complessità tradotte in abracadabra ad alto tasso di finzione, imposte come l’one best way mondiale. Quando il combinato tra aumento delle materie prime e parossismo privatista, con la copertura ideologica della vague neoliberista, determinò l’accantonamento delle ricette keynesiane dell’investimento pubblico in funzione anti-ciclica: il più generoso esperimento di accomunare libertà e solidarietà mai tentato dall’umanità.

La liberazione del turbocapitalismo da controlli e contrappesi avviò il dimagrimento dello Stato attraverso l’evasione fiscale dei vertici finanziari; con le enormi ricchezze accumulate dalla plutocrazia ritornata in campo, virate a finanziamento del crescente debito pubblico (i privati grandi investitori sul deficit. Persone fisiche celate sotto l’astrazione “mercati”; ormai in grado di imporre ai governi le scelte a garanzia dei loro crediti). Ossia il ribaltamento politico nel gioco delle parti: i cittadini declassati a pagatori di impegni che non avevano assunto; la finanza (i mercati) ascesa a legislatore occulto. Con il personale di partito, sottoscrittore del patto leonino con la plutocrazia, impegnato a occultare i rapporti di scambio e di forza reali per depistare il popolo taglieggiato. Mentendo e fingendo.

In una casistica che sta diventando infinita. Come ci riferiva Mariana Mazzucato, nel suo saggio “Il grande imbroglio”: il caso emblematico del governo australiano che nel 2021 ingaggiò la McKinsey sul tema del Piano Nazionale per il climate change (l’obiettivo emissioni zero entro il 2050). Non per consigliare azioni strategiche utili, ma «creare l’illusione di agire in tal senso», senza colpire interessi legati all’estrazione di combustibili fossili. A fronte dell’onorario di 6 milioni di dollari australiani (3,65 milioni di euro).

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