Musica

Il Gaber nascosto: quello che il film sul Signor G. non racconta. La lettera di Flavio Oreglio

Parliamo nel dettaglio del Sig. G più nascosto

di F. Q.

APPROFONDIMENTO: Dati, documenti e riflessioni dettagliate a fondamento e sostegno delle tesi esposte

Premessa: da più di vent’anni mi occupo di “Cabaret” una tipologia di spettacolo da più di mezzo secolo confusa col “comico” e scarsamente considerata come fatto culturale. Niente di più sbagliato. Il cabaret con i comici non c’entra nulla, ma non posso addentrarmi nell’argomento più di tanto perché servirebbero dieci articoli a parte. Per saperne di più, vi segnalo il mio libro “L’Arte Ribelle” pubblicato da Sagoma Editore nel 2019. Lo trovate comodamente on line. Per approfondire studi e ricerche ho costituito in un primo momento il Centro Studi Musicomedians e quindi in seconda battuta l’Archivio Storico del Cabaret Italiano. Grazie a queste ricerche sono entrato in possesso di documentazioni interessanti sulle quali si basano le tesi che sostengo. Per la cronaca, grazie al ritrovamento di tali documenti nel mese di luglio 2023 a Firenze ho potuto allestire e curare la mostra “L’alba di Gaber”, nell’ambito della manifestazione “La Gaberiana” ideata e diretta da Andrea Scanzi. L’archivio ha dato il suo contributo documentale anche alla realizzazione dei libri “La versione di Cochi” curata da……………. e “Jannacci arrenditi” di Guido Harari.

Ma parliamo nel dettaglio del Sig. G più nascosto. Gaber era prima di tutto un musicista. Iniziò la sua avventura artistica come chitarrista, appassionato di jazz, esibendosi nel locale milanese Santa Tecla. Come tutti i giovani della sua generazione fu investito dall’energia del rock’n roll nascente che lo portò all’esordio al Musichiere (Ciao ti dirò – 1959) e all’esperienza dei Due corsari nati nei primi festival del rock’n roll a Milano, in coppia con l’amico fraterno Enzo Jannacci. Piccolo particolare non di scarso rilievo, siamo alla fine degli anni ’50, Giorgio era un ventenne e, come tutti i giovani di ogni generazione, faceva i conti con entusiasmo e inesperienza. Dopo quel capitolo proto-rockettaro i suoi interessi slittarono anche, per non dire soprattutto, su altri fronti.

Ed è già qui che avvenne lo switch, è qui che in lui s’insediò il seme che lo porterà fino al Tetro Canzone. Il seme dovrà solo avere il tempo di germogliare e fiorire, ma il suo impianto orienterà da subito le attività (anche televisive) del giovane Giorgio.

Complice e in parte responsabile di questo scostamento è stata senza dubbio Maria Monti, con la quale Gaber ebbe una relazione affettiva e artistica. La dimensione privata della vicenda non ci riguarda, ma quella artistica è stata determinante. Per questo non si può liquidare Maria Monti – come fa il film – parlandone solo come di un’attrice con cui Gaber lavorò agli inizi della sua carriera. Tra l’altro – cosa non da poco – all’epoca Gaber elaborava le sue idee con Umberto Simonetta (già il testo della canzone “Una fetta di limone” dei Due Corsari è suo) e così, mentre da un lato nascevano le canzoni più “sanremesi” (Genevieve, Non arrossire) dall’altro ecco iniziare da subito una produzione musicale alternativa molto più interessante con “La ballata del Cerutti”, canzone che definire pietra miliare nella storia di Gaber è dire poco.

Su questo punto urge una riflessione non da poco.

Le prime canzoni di Gaber spesso spacciate per “canzonette leggere” – in contrapposizione a quelle “impegnate” del Teatro Canzone – proprio tali non andrebbero considerate, perché furono il frutto di un approccio culturale alternativo che fu definito da Umberto Eco con l’appellativo di “Canzone nuova” indicandola come “via italiana al cabaret” (Rivista “Sipario” – Numero speciale dedicato al TEATRO CABARET NEL MONDO – 1963). In quel momento storico, infatti, prese vita un contesto di ricerche e di studi sui canti popolari, inaugurato alla fine degli anni ’50 a Torino con l’attività dei Cantacronache (con Fausto Amodei, Michele Straniero, Sergio Liberovici e Margherita Galante Garrone – in arte “Margot” – che collaborarono a tal fine con uno stuolo di “personaggini di secondo piano” che rispondevano ai nomi di Gianni Rodari, Emilio Jona, Italo Calvino e Umberto Eco) e proseguito a Milano, a partire dai primi anni ’60 con l’attività dell’etnomusicologo Roberto Leydi, il quale istituì con Gianni Bosio, nel 1962 il Nuovo Canzoniere Italiano, esperienza nella quale confluirono i Cantacronache e che porterà alla creazione dell’Istituto Ernesto De Martino e alla collaborazione con moltissimi artisti tra cui Ivan Della Mea.

Siamo agli albori della canzone d’autore in Italia, ispirata dagli chansonnier francesi: Georges Brassens, Jacques Brel, Boris Vian… solo per citarne alcuni. L’approccio diverso alla canzone, per “evadere dall’evasione” (come sostenevano i Cantacronache) prevedeva per l’appunto, oltre all’impegno sociale e politico sui fatti del presente – un esempio su tutti Per i morti di Reggio Emilia – anche il recupero delle tradizioni popolari e di conseguenza quindi la riscoperta dei dialetti.

Non a caso in quel periodo nacquero le “Canzoni della mala” scritte per Ornella Vanoni da Dario Fo, Giorgio Strelher, Fiorenzo Carpi e Gino Negri, non a caso al Teatro Gerolamo nel 1962 ebbe un grande successo lo spettacolo “Milanin Milanon” ideato da Roberto Leydi con la partecipazione tra gli altri di Enzo Jannacci che sempre non a caso scrisse in quegli anni canzoni come Andava a Rogoredo, Faceva il palo (rielaborazione dixieland di un brano di Walter Valdi) e l’emblematica El purtava i scarp del tennis.

Nell’ambito di quella nebulosa culturale, anche Gaber si spinse, a modo suo,, in quella direzione, cantando per esempio con Maria Monti La Balilla (il cui meccanismo rappresenta un probabile preludio ispiratore della divertentissima “Quello che perde i pezzi”) ma soprattutto scrivendo con Simonetta canzoni come la già citata Ballata del Cerutti , cui fecero seguito Trani a gogo, Porta Romana e, ancora più in là, Il Riccardo e Barbera e Champagne. Erano brani che descrivevano la Milano degli anni ’50 e ‘60 e che si rifacevano – per stile, metodo e sentimento – alle composizioni dialettali di Giovanni D’Anzi e Alfredo Bracchi che parlavano della Milano degli ani ’30 e ’40. La grande intuizione del duo Gaber-Simonetta fu il superamento del dialetto, ma lo spirito popolare-milanese delle due esperienze musicali rimase identico. Ovviamente, superare il dialetto voleva dire parlare a tutti gli italiani e non solo alla ristretta cerchia dei lombardi.

Quanto analizzato e messo e luce rientra in un discorso più generale relativo al rapporto tra Gaber e il cabaret, forma di spettacolo che proprio in quegli anni visse a Milano non solo la sua epoca d’oro, ma l’unica epoca in cui la parola “cabaret” ebbe un significato e un valore corretto. L’argomento non è stato minimamente trattato nel film su cui stiamo ragionando. Piccolo appunto collaterale, i fenomeno del cabaret a Milano viene spesso chiamato “cabaret milanese”, ma in realtà tale dicitura non solo è riduttiva, ma sbagliata. Più corretto parlare di “cabaret a Milano”, perché i protagonisti di quell’epopea arrivavano in realtà da tutta Italia, motivo per cui possiamo tranquillamente definirla un’esperienza “nazionale” e non semplicemente “milanese” o “locale”.

Come testimoniano diversi documenti custoditi nell’Archivio Storico del Cabaret Italiano, Gaber era un assiduo frequentatore dei cabaret. Partecipò alle iniziative di Tinin Mantegazza alla “Muffola” (1960-1961) e al “Cab 64” (dove conobbe Franco Battiato che poi lanciò in TV e con cui collaborò), frequentava le serate del Nebbia Club e quelle del Derby Club, sia ai tempi della direzione artistica di Enrico Intra (Intra’s Derby Club) sia in seguito, quando Enzo Jannacci ne divenne responsabile, lanciando il “Gruppo Motore”. Ad avallare ulteriormente questa tesi (come se ce ne fosse bisogno) oltre a fotografie, manifesti e articoli, ci sono alcuni fatti “rilevatori”, come per esempio lo straordinario pezzo di bravura “Il tic” (Lavoravo in quel di Baggio…) eseguito da Gaber in TV ma scritto da Walter Valdi, il personaggio forse più rappresentativo del Derby Club.

Gaber stabilì con il cabaret e i suoi protagonisti, una relazione osmotica, empatica o – se preferite rispolverare un’espressione foscoliana – “d’amorosi sensi”: un do ut des fatto per un verso di “formazione” cui corrispose un quid di rimando in termini di “promozione”. Per rendersi conto della veridicità di quanto affermato è sufficiente analizzare i contenuti delle prime trasmissioni curate da Umberto Simonetta (ma guarda un po’) e affidate alla conduzione di Gaber.

Parlo per esempio di “Canzoniere minimo” (1963) “Milano cantata” (1964) e “Questo o quello” (1964) dove tra gli ospiti presenti spicca un nutrito stuolo di artisti provenienti dall’underground alternativo del cabaret della Milano di allora: Enzo Jannacci, Tino Carraro, Maria Monti, Anna Nogara, Liliana Zoboli, Gino Negri, Margot, Paolo Poli, Sandra Mantovani, Milly, Liliana Feldmann fino ad arrivare all’etnomusicologo Roberto Leydi e al “monumento” Giovanni D’Anzi. Questo solo per citarne alcuni.

Frequentando i cabaret Gaber entrò in contatto con una serie di esperienze artistiche sperimentali e innovative, meccanismi di comunicazione e codici espressivi particolari, in primis con l’idea di raccontare storie tra monologhi e canzoni, un’idea, un concetto, un’idea già presente all’epoca del primo cabaret artistique nell’attività di Aristide Bruant (Le Chat Noir, Parigi 1881) e ripresa in modo naturale e probabilmente inconsapevole dallo stesso Valdi, da Jannacci, da Franco Nebbia e soprattutto dai Gufi (Nanni Svampa, Roberto Brivio, Gianni Magni e Lino Patruno) – idea che lui assorbì portandola in seguito alla sua espressione più perfetta, generando quella singolare forma teatrale che poi battezzò con il nome di “Teatro Canzone”. Possiamo dire, senza esitazione, che Il Teatro Canzone da un punto di vista realizzativo-culturale è strettamente connesso ai linguaggi del “cabaret” e ne rappresenta il frutto più maturo, allo stesso modo in cui il teatro epico di Brecht è l’apice espressivo del kabarett tedesco, da dove Bertolt prese le mosse. Con linguaggio matematico possiamo dire che il Teatro Canzone sta al cabaret come il teatro di Brecht sta al kabarett. E scusate se è poco…

Non possiamo capire Gaber fino in fondo se tralasciamo di parlare dell’humus nel quale Giorgio è cresciuto, un humus alimentato dalla presenza di personaggi come Strelher e Paolo Grassi (il Piccolo Teatro produrrà il primo signor G e il Teatro Gerolamo – gestito dal Piccolo dal 1958 al 1978 – ospitò “Il Giorgio e la Maria” prima dell’esordio televisivo in pianta stabile di Gaber) e da gente come Dario Fo, Franco Parenti, Giustino Durano, il Teatro dei Gobbi (a Roma) dallo spirito della Borsa di Arlecchino (a Genova) dall’attività dei Cantacronache e del Nuovo Canzoniere Italiano, dalle chance-laboratorio dei luoghi ideati da Enrico Intra, Tinin Mantegazza e Franco Nebbia.

È stata proprio la crescita nel contesto di questo terreno di coltura che ha provocato – in realtà come logica conseguenza e a tempo debito – il distacco di Gaber dal dorato mondo del video e del mainstream, un distacco che avvenne per la sua naturale predisposizione-attrazione – come abbiamo visto sempre coltivata – verso l’approccio tipico del cabaret, un’attrazione che negli anni – crescendo e maturando – evidentemente si fece sempre più potente, fino ad arrivare alla deflagrazione che poi in realtà così netta e decisa non è proprio stata, perché comunque Gaber continuò a frequentare la TV anche dopo la nascita ufficiale del Teatro Canzone.

Mettete le cronologie a confronto per credere.

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