Mario come Diletta. Stessa clinica, stessa prematurità, stesso danno. Io al primo grado mi fermai e scelsi di concentrarmi su mia figlia perché non avevo forze per null’altro. A 26 anni ritrovarsi con una bambina cerebrolesa in braccio ed ascoltare parole, diagnosi, consigli, aspettative, esperienze che raccontano una vita mai neanche immaginata nel peggiore degli incubi è il primo viaggio verso la consapevolezza. La prima risposta che bisogna darsi: non esiste un perché. È accaduto. È definitivo. Va gestito.

Certe battaglie non si vincono ancora. Nel mio caso scrissero che non avrei mai potuto avere figli sani in quanto obesa. Poi ho avuto altre due figlie perfettamente sane come sarebbe stata Diletta se fosse andato tutto come ogni mamma immagina, sogna e dà spesso per scontato. Nascerà la mia bambina. Non si pensa a molto altro. Così fu per me.

Fu un parto difficilissimo da affrontare. Gli anni scorrono e si cerca di non pensarci. La disabilità su una neonata è un binomio stonato incomprensibile. Cosa ancora non fa perché piccola? Cosa non farà mai? Cosa avrebbe fatto se…? Camminerà? Sarà come gli altri? Ci si domanda solo questo e si trascorrono anni insonni a cercare cure e soluzioni in attesa che il tempo aiuti quel percorso di consapevolezza e di accettazione che è un passaggio obbligato per la svolta.

Anni dopo, tramite la mia pagina Facebook, leggo di una mia amica virtuale e non solo. Una mamma e una caregiver. Una che ha reagito. Una donna che ha costruito da quel figlio la sua forza ed è voluta andare in giudizio. Anni dopo una sentenza le ha dato torto: la clinica vuole da lei quasi 300mila euro di spese legali.

Elena Improta, per pagare la sua sete di giustizia e il suo coraggio, rischia di dover chiudere “La Casa di Mario” che offre a Mario, suo figlio, e a tanti altri ragazzi e ragazze con disabilità, la possibilità di usufruire di spazi residenziali attrezzati, dove poter costruire quotidianamente le basi per un futuro dignitoso e un presente di vita autonoma per quanto possibile. Della loro storia si parla ovunque, si scatenano i social e le testate, ma non basta. Elena ha portato avanti uno sciopero della fame contro la sentenza che la condanna per un parto drammatico di 34 anni fa quando suo figlio Mario è nato con una grave disabilità. Per chiedere che La casa di Mario non chiuda, più di 60mila persone hanno firmato una petizione lanciata da Serenella Bischi su Change.org e indirizzata al presidente della Repubblica Sergio Mattarella e alla premier Giorgia Meloni.

La storia del parto prematuro in solitudine, dell’ascensore che porta in sala parto, lo ricordo anche io. Nel mio caso mi disse una infermiera: “È stata fortunata, le femmine capiscono di più ma come mobilità hanno più problemi”. Agghiacciante a ripensarci oggi. Ricordo questa frase perché avevo 26 anni come Elena, ero senza mio marito come Elena, al mio primo figlio anche io. E non capivo neanche cosa dicessero. Ricordo anche io delle urla.

È tremendo ciò che si prova. Ricordo il lettino ginecologico della sala parto e vedo quella giovane Fabiana sfinita da sei giorni di ricovero durante i quali non mi fecero nulla. Mi dissero che ero fifona, troppo giovane, viziata e mi usarono una violenza psicologica che allora subii colpevole di non essere come avevo immaginato. E quando dopo un anno e una cartella clinica di sole sei pagine, a mio avviso piene di bugie, iniziai la causa, tutti mi avvisarono che avrei perso. E così fu. Non andai oltre il primo grado.

Elena è stata più forte e coraggiosa. Ribelle e giusta. E ha perso. Ma non ha perso lei. Stanno perdendo soprattutto tutti i ragazzi della casa di Mario e tutti coloro che non fanno nulla per evitare che queste nascite siano gestite in luoghi inadatti e intoccabili. Perché chi sbaglia deve pagare. Anche nelle prestigiose cliniche romane.

E’ pesantissimo per me scrivere di questa vicenda perché è davvero specchio della mia e di quella di tante, troppe famiglie. Portiamo a casa bambini cerebrolesi. Una vita che ci farà invecchiare senza avere il tempo di chiederci perché è accaduto. La nostra vita entra in un frullatore che non lascia scampo. Non si respira decenni. Si impara a vivere senza respiro e senza vita, confusa per sempre con quella di un figlio gravissimo cui devi dare amore, gioia e forza anche quando dentro senti solo i postumi di uno tsunami.

E cosa fa la giustizia? Utilizza strumenti evidentemente errati se per decine di bambini cerebrolesi non esiste una sola condanna. O sono tutti sfortunati? Si deve intervenire per Mario e sua mamma Elena, ma soprattutto si deve intervenire affinché sia più semplice ed efficace avere una ragione legittima su un danno da parto nel 2023.

La scienza costruisce nuovi metodi per fare nascere. Ci si chiede quanto questo potenzialmente può aumentare i rischi? L’età delle madri è sempre più alta, le patologie di rischio sempre più numerose per lo stile di vita. È necessario adeguare le normativa e creare una giustizia realmente fruibile. Potenziare e finanziare associazioni legali perché intentare una causa di questo tipo richiede decine di migliaia di euro solo per iniziare e quasi sempre è sconsigliabile perché quasi sempre si perde.

Sostenere Elena e Mario è un dovere di tutti.

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