Teoricamente sono preparatissimi sul cambiamento, concettualmente sono tutti pienamente consapevoli della necessità della trasformazione. Anche le sfide (sempre teoretiche) del tipo “o si cambia o si muore” che una volta erano considerate catastrofi alquanto rare nel mondo degli affari sono in pratica diventate il nuovo mantra, ma senza una reale capacità di vincerle. Quando si passa all’atto pratico, i piccoli imprenditori sono dei pachidermi. Ma quali sono le verità del cambiamento in una piccola azienda?

In base alla mia esperienza almeno una decina (raccontate su questo blog) ma tutte ha un unico comune denominatore: non occorre pensare al cambiamento in termini di un momento scioccante ma di breve durata nella storia dell’azienda. Non è un evento, ma è tutta un’epoca. Il cambiamento si deve coniugare con la sostenibilità. La gente immagina il secondo passaggio di Steve Jobs in Apple come un veloce piano di risanamento, e in effetti lo è stato se pensiamo alle dimensioni di quella azienda. Ma non dimentichiamo che comunque si è realizzato in un intervallo di tempo che va dal 1997 al 2006, e nessun passo singolo fu decisivo da solo.

Quando ti aspetti che la trasformazione definisca un’epoca e non debba realizzarsi nello stesso arco di tempo in cui produci le scarpe (mi è capitato in un calzaturificio), la gestisci in modo diverso.

Primo, ti immagini come tenere viva una visione, sapendo che le realtà del giorno per giorno ti farà deviare da una parte all’altra. In quel calzaturificio il cambiamento prevedeva di abbandonare tre linee di produzione per conto di terzi (brand) e di concentrarsi solo su quelle con il potenziale maggiore: tutto ciò richiese di spostarsi su una strategia diretta al consumatore finale attraverso lo sviluppo di solide infrastrutture di e-commerce. Tenere gli occhi puntati su questo unico obiettivo significava ricordare costantemente all’imprenditore (quanta fatica!) che eravamo tutti impegnati nella costruzione di una iniziativa di successo

Al tempo stesso, cerchi di non diventare un ideologo. I fallimenti peggiori in operazioni di trasformazione che il mondo abbia mai visto sono stati il risultato di credere nelle fiabe. Una stringente argomentazione filosofica può catturare la gente per un po’, ma in un’iniziativa di lungo termine alla fine ci si deve confrontare con la realtà. E la realtà vince sempre. In quel calzaturificio occorreva dimostrare con i fatti (il saldo del conto corrente) all’imprenditore che il cash flow che stava realizzando abbandonando linee di produzioni poco efficienti era più importante degli utili solo teorici che precedentemente faceva fatica a vedere nella sua cassa.

Abbiamo poi scoperto altre due verità sull’imbarcarsi in un’epoca di cambiamento: devi preparare la gente a vedere le cose peggiorare prima che inizino a migliorare (specie perché le prime mosse – che saranno valutate in base alle metriche del vecchio modello -appariranno più sbagliate di quanto non siano). E devi guardare con occhi nuovi alle persone su cui fai affidamento. Accettare che non tutti sono tagliati per prosperare in condizioni ambigue o avverse. Occorre rimodellare il team perché sia preparato a gestire la trasformazione.

E magari si potesse fare lo stesso anche con la proprietà e il management che, più di chiunque altro, tendono a considerare una trasformazione come un evento dagli stretti confini che è stato precipitato da una crisi (anche se i problemi si sono sviluppati in anni). Gli imprenditori/manager di solito vogliono solo che il dolore finisca. E invece sono quelli che hanno bisogno di venire maggiormente istruiti sulle verità del cambiamento.

Ma se riuscite tutti (imprenditori, manager e collaboratori) ad accettare quello che si preannuncia come un lungo processo di apprendimento, allora l’azienda sopravviverà per affacciarsi a una nuova era.