Il 4 novembre 2008, Barack Obama veniva eletto 44esimo presidente degli Stati Uniti: il senatore dell’Illinois, un avvocato nero fino a un anno prima sconosciuto alla maggioranza degli elettori, batteva il candidato repubblicano John McCain, senatore dell’Arizona, un eroe di guerra, prigioniero per sette anni in Vietnam.

365 a 173 il conto dei Grandi Elettori, quasi 53% a poco meno del 46% il computo dei voti.

La mattina del 5 novembre, in tutto il mondo si respirava un’aria di ottimismo: dall’America che festeggiava a Chicago il suo primo presidente afroamericano all’Europa, che intravvedeva la fine d’un ciclo di guerre; dall’Africa, che pareva avesse uno dei suoi alla Casa Bianca, all’Asia, dove Russia e Cina speravano in migliori relazioni con gli Stati Uniti.

Qualcosa, però, è andato storto, se è vero che otto anni dopo, l’8 novembre 2016, gli americani mandavano alla Casa Bianca Donald Trump, che di Obama era il rovescio della medaglia, uno che al ‘Noi’ di ‘Yes we can’ – lo slogan vincente della campagna 2008 – sostituiva un ipertrofico ‘Io’; e a maggior ragione se è vero che, fra esattamente un anno, il 5 novembre 2024, c’è il rischio che rimandino alla Casa Bianca l’immarcescibile Trump, nonostante cinque rinvii a giudizio – federali, statali e locali – e uno slalom fra le menzogne ininterrotto. Però il mito di Obama in qualche modo resiste. Del resto, l’unica persona sicura di battere Trump, se lo affrontasse, è sua moglie Michelle, la carta di riserva dei democratici se l’attuale presidente Joe Biden, il vice di Obama, dovesse farsi da parte sotto il peso dell’età e/o dei sondaggi, che gli attribuiscono un tasse d’approvazione basso.

Nel 2008, gli Stati Uniti uscivano dalla mediocre presidenza di George W. Bush, subito segnata dall’attacco terroristico dell’11 settembre 2001 e poi costellata da decisioni destinate a rivelarsi clamorosi errori: l’intervento in Afghanistan per dare la caccia ad al Qaeda, l’invasione immotivata dell’Iraq, il mancato rispetto dei valori fondamentali nel nome della lotta al terrorismo, torture, renditions, il carcere di Guantanamo.

Obama, 47 anni, uno dei più giovani presidenti eletti – il record è di John F. Kennedy, 43 anni – era la speranza di metterci tutto questo alle spalle: lui, il primo nero alla Casa Bianca, aveva sorprendentemente battuto nelle primarie la favoritissima Hillary Rodham Clinton, ex first lady, ex senatore dello Stato di New York, che sembrava predestinata a diventare la prima donna presidente degli Stati Uniti – non sarà così neppure nel 2016, quando ottenne la nomination democratica, ma fu battuta da Trump.

Quel mercoledì 5 novembre sembrava l’alba di un mondo migliore. Ma Obama non concretizzerà molte delle attese alla base della sua elezione: il ritiro dall’Afghanistan e dall’Iraq, parzialmente compiuto nel 2015, e la chiusura della prigione di Guantanamo; né migliorerà i rapporti con Russia e Cina. E la presenza di un nero alla Casa Bianca contribuirà a risvegliare il suprematismo bianco, una delle componenti del successo di Trump nelle presidenziali 2016.

Però la percezione di un mondo migliore solo perché l’inquilino della Casa Bianca era un nero che diceva le cose giuste, anche se poi non riusciva a farle – e che non usava toni esaltati e non parlava per slogan, ma faceva ragionamenti e spiegava il perché delle scelte – permase nel tempo. A un anno dalla sua elezione, gli venne conferito il Nobel per la Pace quasi sulla fiducia, anzi sulla speranza, senza che in realtà avesse fatto nulla per meritarselo; né lo avrebbe fatto dopo. La motivazione diceva: “Per i suoi sforzi straordinari volti a rafforzare diplomazia internazionale e cooperazione tra i popoli”.

Più scontato che il settimanale Time lo abbia designato due volte persona dell’anno, nel 2008 e 2012. In genere, chi vince o rivince le presidenziali Usa lo diventa. Le elezioni del 2012 furono meno palpitanti: primarie senza storia per Obama e partita dall’esito quasi scontato contro un quasi rassegnato candidato repubblicano, il senatore mormone dello Utah Mitt Romney, 332 a 206, oltre il 51% contro oltre il 47%.

Dal punto di vista della pace e della sicurezza, la presidenza Obama ha avuto strascichi negativi: ulteriormente compromesse dalla guerra con la Georgia nel 2008, le relazioni con la Russia s’impantanarono; la situazione in Iraq e la cattiva gestione delle Primavere arabe, a partire dall’insurrezione anti-Gheddafi in Libia e dall’incerto atteggiamento in Siria, furono le premesse per la nascita dell’Isis e per un’ondata di attentati in Europa che fecero centinaia di vittime. L’economia uscì dalla crisi del 2008, ma faticò a tornare sui livelli precedenti. E i diritti dei neri e delle minoranze ebbero un paladino alla Casa Bianca, ma, forse per frustrazione, i poliziotti Usa non avevano mai ucciso tanti neri come negli ultimi anni della sua presidenza.

Figlio di un’antropologa originaria del Kansas e di un economista keniota, nato alle Hawaii, Obama dovette combattere diverse fandonie sul suo conto: ad esempio, di non essere nato negli Stati Uniti, ma in Kenya, e quindi di non avere titolo per essere presidente degli Stati Uniti; o di essere musulmano. Divenuto avvocato nel campo della difesa dei diritti civili e insegnante di diritto costituzionale presso la Law School dell’Università di Chicago, dopo essersi laureato in prestigiose università della East Coast, Obama, che in gioventù era stato operatore sociale, fu attirato dalla politica ed entrò nel 1997 nel Senato dell’Illinois. Nel 2000 tentò di essere eletto alla Camera, ma fece flop; fece invece centro nel 2004, quando si candidò al Senato e s’impose, sbaragliando nelle primarie un’agguerrita schiera di rivali democratici.

Proprio il successo alle primarie gli valse l’onore di pronunciare – lui era ancora un signor nessuno, a livello nazionale – il discorso introduttivo della convention democratica del luglio 2004, che puntò su John Kerry come sfidante di George W. Bush. A quel punto, Obama divenne una figura di spicco del partito democratico: eletto al Senato degli Stati Uniti nel novembre 2004, con il margine più ampio mai registrato nella storia dell’Illinois, fu senatore per quattro anni. Quando, nel 2007, annunciò la sua candidatura alla nomination democratica, il suo pareva un gesto senza speranza: toccava a Hillary. Invece, dopo un’aspra contesa, Barack la spuntò, divenendo così il primo afroamericano a correre per la Casa Bianca in rappresentanza di uno dei due maggiori partiti; e il primo a vincere.

“Yes we can”, scandiva la notte del 4 novembre la piazza gelida di una Chicago festosa. “Yes we can”, facevano eco i media del mondo. Della sua presidenza, Obama ci ha lasciato, soprattutto, l’immagine e la speranza della sua vittoria.

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