Sul suo corpo avvolto in un telo bianco, e steso insieme ad altre centinaia tra le lacrime dei sopravvissuti, i suoi colleghi hanno adagiato il gilet blu con la scritta Press, un microfono e una fascia con i colori della bandiera palestinese. Muhammed Abu Hatab era corrispondente della Tv Palestinese e il 2 novembre è stato ucciso insieme alla sua famiglia, da un raid israeliano sulla sua abitazione di Khan Younis, nel sud della Striscia di Gaza. Aveva terminato da un quarto d’ora il collegamento dall’ospedale Nasser. Il suo nome è andato ad allungare la lista dei giornalisti morti in quattro settimane di conflitto in Medio Oriente: secondo il Committee to Protect Journalists sono 36, di cui 31 palestinesi.

“Sono addolorato. Era con noi al lavoro. Poco dopo, quando è andato via, gli hanno bombardato la casa e lui e tutta la sua famiglia sono stati uccisi” racconta raggiunto al telefono dal Fattoquotidiano.it Mohammed Al-Aloul, cameraman e fotoreporter 36enne nato e cresciuto nel campo profughi di Maghazi, nella Striscia di Gaza. Al-Aloul ricorda anche il dramma di Wael Al-Dahdouh, giornalista di Al Jazeera che il 25 ottobre ha ricevuto in diretta la notizia della morte dei suoi figli e di sua moglie, vittime di un attacco israeliano. “Vengono presi di mira i giornalisti, mi sento sempre in pericolo. Siamo sotto continui bombardamenti, anche quando siamo per strada e ci spostiamo per andare a inviare le immagini. A Gaza nessuno è al sicuro”. Sul campo dal 2008, non è la prima guerra che vede. “Nel 2022, sono stato colpito mentre filmavo le rovine lasciate dai missili israeliani. Sono stato in cura un anno intero prima di tornare a riprendere. Possiedo l’attrezzatura per la stampa, il gilet e il caschetto, ma questo non mi protegge. Non esiste un luogo dove lavorare al riparo dagli attacchi, nemmeno dove sedersi e fare i servizi. Io cerco di seguire tutto ciò che accade, ovunque. Tutti i miei sforzi si concentrano sul documentare i crimini che gli israeliani stanno commettendo contro i civili a Gaza. Domani? Non so cosa mi accadrà”.

Oggi nella Striscia di Gaza non può entrare nessuno, nemmeno reporter e osservatori internazionali. E se non cala il buio su ciò che accade è grazie ai giornalisti palestinesi come Al-Aloul. Sono fotoreporter, cameraman, cronisti. Producono senza sosta centinaia di video e immagini. Con poche attrezzature, si avventurano tra le macerie dopo i bombardamenti, filmano chi scava a mani nude per cercare i sopravvissuti. Sono testimoni delle migliaia di morti, della sofferenza negli ospedali, della disperazione di chi rimane. Dall’inizio dell’escalation stanno lavorando in condizioni fisiche e psicologiche estremamente difficili e precarie, mettendo continuamente a rischio la propria vita. Come il resto della popolazione devono procurarsi cibo e acqua potabile, sempre più rara a Gaza. Far fronte alla mancanza di energia elettrica e connessione internet indispensabili per spedire il materiale alle testate ma anche per contattare le proprie famiglie sfollate al sud. Spesso la mancanza di carburante li costringe a spostarsi da un luogo a un altro con mezzi di fortuna, anche carretti con gli asini. Alcuni dormono in auto, altri non hanno più una casa perché distrutta dai raid. Ci sono immagini di reporter che mentre lavorano aiutano a trasportare bambini feriti e coperti di sangue in una corsa disperata verso l’ospedale. E c’è chi, come il fotoreporter Ali Jadallah, abituato a riprendere le centinaia di esplosioni, un giorno si è ritrovato dall’altra parte: l’edificio distrutto che aveva davanti era quella della sua famiglia. E sotto c’era anche suo fratello. Ha seppellito i suoi parenti e poi è tornato a fotografare insieme ai colleghi.

“Non ne possiamo più, siamo esausti” ha detto in diretta tv Salman al-Bashir, giornalista del canale televisivo dell’Autorità Palestinese, dopo aver appreso della morte del suo collega, Mohammed Abu Hatab. “Nessuno ci vede, nessuno vede la grandezza di questa catastrofe” ha aggiunto prima di togliersi il giubbotto antiproiettile con la scritta ‘Press’ e l’elmetto. “Non c’è sicurezza internazionale, nessuna immunità per questi giubbotti e questi elmetti, sono solamente slogan che indossiamo, non proteggono i giornalisti”.

Intanto oltre 70 tra associazioni e sindacati di giornalisti di tutto il mondo hanno lanciato un appello al governo israeliano, perché si impegni a “proteggere la vita dei reporter che seguono la guerra a Gaza, in conformità con il diritto internazionale“. Il numero di operatori dei media che hanno perso la vita nel conflitto “non ha precedenti” ha detto Anthony Bellanger, segretario della Federazione internazionale dei giornalisti. “È inaccettabile e il governo israeliano dovrà assumersi le proprie responsabilità. Le forze armate facciano ogni sforzo per garantire che il numero dei giornalisti morti non aumenti ulteriormente”

foto Instagram/Mohammed Alaloul

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