La Commissione parlamentare Antimafia guidata dalla On. Colosimo, nonostante (*), ha finalmente istituito i Comitati tematici nei quali si articolerà il lavoro ordinario della Commissione stessa. Sono soltanto cinque e nessuno riguarda, come già ho segnalato, il lavoro sulla strage di Via D’Amelio che resta materia della plenaria della Commissione (meno male!). Ha attirato la mia attenzione in particolare il quinto Comitato intitolato: Vittime di mafia e Testimoni di Giustizia.

Intanto perché sono molto curioso di capire come verranno declinati questi due oggetti: cosa si vorrà intenderà, per esempio, con “vittime di mafia”? Certo le vittime di racket e di usura mafiosa, certo i famigliari delle persone assassinate, ma saranno considerate tra le vittime di mafia anche gli sfruttati dal caporalato? O le donne ed i minori costretti in famiglie mafiose? O più generalmente i minori privati di libertà ed opportunità perché inseriti in contesti sociali oppressi dalla cappa mafiosa? Lo vedremo. Ma il dato più inquietante è la scomparsa del riferimento ai collaboratori di giustizia, sia da questo Comitato, che di solito se ne occupa in parallelo ai Testimoni, sia da altri Comitati. Come mai?

Nel contrasto alle mafie i collaboratori di giustizia hanno una importanza ineludibile. Chi sono i collaboratori di giustizia? Sono mafiosi patentati che ad un certo punto o per convenienza o per coscienza (o per un mix delle due) decidono di collaborare con la giustizia auto accusandosi dei delitti commessi ed accusando i propri sodali, permettendo così di conoscere fatti diversamente segreti, relativi ad armi, latitanti, traffici, omicidi in preparazione e relazioni esterne.

L’importanza dei collaboratori è documentata anche dalla più recente operazione contro le mafie “consorziate” a Milano, operazione che sta facendo molto discutere per la discrepanza di valutazione emersa tra Distrettuale anti mafia e Giudice per le indagini preliminari che ha disposto le prime misure cautelari, ebbene proprio dall’Ordinanza di custodia cautelare emerge una storia emblematica di un ‘ndranghetista, capo società, che decide di collaborare con la giustizia, convinto da suo figlio, anche lui mafioso ed anche lui arrestato. Cito: “Poi nel Duemila ci hanno arrestato di nuovo e ci hanno portato ad Asti e lui da lì ha cominciato a scrivermi delle lettere. E niente, io da lì ho deciso. Perché non potevo tenere mio figlio all’interno del carcere, ma non volevo soltanto tirarlo fuori dal carcere, volevo proprio tirarlo fuori da questa vita assurda… Ecco ricevere queste lettere da mio figlio, mi ha scosso la coscienza e ho deciso di collaborare. Perché è giusto che lui si faccia una vita sua e che non sia io a decidere per lui”.

Dell’importanza dei collaboratori si convinse proprio il pool di Palermo, coordinato prima da Chinnici, poi da Caponnetto e composto, tra gli altri, da Falcone e Borsellino, che si trovò a gestire il “proto-collaboratore” Buscetta. Quei magistrati furono tanto consapevoli della necessità di costruire un sistema legale (!) di negoziazione tra Stato e mafie che Falcone, arrivato al Ministero, ispirò le prime norme di Legge per formalizzarlo in maniera equilibrata ed efficace. Ed infatti da allora questo strumento, unitamente all’autorevolezza dei magistrati e degli investigatori deputati a farlo funzionare ha prodotto risultati clamorosi, molti dei quali ascrivibili proprio al lavoro della Procura di Palermo del dopo stragi. La Procura che mise alla porta Giammanco e fu guidata da Caselli, quella per intenderci che oggi rischia di finire sul banco degli imputati nella Commissione Colosimo, come se fosse stata parte del problema e non della soluzione, ottenendo oltre seicento condanne all’ergastolo e confische per oltre diecimila miliardi di lire. Risultati ottenuti anche per il combinato tra norme sui collaboratori e credibilità dei magistrati.

Quella della “collaborazione” è una materia sicuramente complessa che negli anni è stata anche segnata da contraddizioni, abusi, strumentalizzazioni. Una materia che fatalmente è collegata a quella delle carceri, della gestione del 41 bis e che rimanda al funzionamento del Servizio Centrale di protezione, della Commissione Centrale incardinata presso il Viminale e presieduta dal leghista Molteni. Una materia evidentemente esiziale che va presidiata, insomma. Ed invece è sparita dai radar della Commissione, perché? Lo spieghi la presidente, che fa continua professione di stima nei confronti di Paolo Borsellino: dovrebbe avere ben chiaro allora quanta importanza riconoscesse proprio Borsellino al rapporto con i collaboratori, tanto che l’ultimo scontro con Giammanco lo ebbe su Mutolo. Spieghi dunque la presidente questo buco o dovremo prendere atto che anche la stima deferente per Borsellino è da intendersi nel quadro di una più ampia compatibilità, “salvo intese” diciamo.

(* d’ora innanzi quando mi capiterà di fare riferimento alla presidente Colosimo metterò sempre un “nonostante”, per evocare le dure ed insuperate critiche dei famigliari delle vittime delle stragi verso una presidente a braccetto con quell’assassino ed ex terrorista)

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