Franco Panariello, già sottoposto a restrizioni perché accusato di violenza domestica reiterata, uccide la moglie con 15 coltellate. L’epilogo prevedibile di questa terribile vicenda è, per chi fa il mestiere mio, o per chi si occupa di cronaca, l’ennesima storiaccia col medesimo copione. Nelle case, dietro le tende, chiuse le porte, prendono vita inferni danteschi, come quello procurato da Alfred Vefa, l’ex marito di Clodiana, dove il suffisso ex non è altro che un superfluo sostantivo: nel lessico dell’assassino, essere ex non poteva lontanamente intaccare un senso di possesso e proprietà della compagna che, nella sua mente, era sua per sempre. Sino al punto di ucciderla, proprio come è accaduto in provincia di Ancona a Concetta Marruocco.

Clodiana scriveva: gli angeli non vivono all’inferno. Perché l’inferno? Non credete, mai, alle semplicistiche storielle che inondano le prima pagine dei quotidiani. Non si tratta di “degenerazioni improvvise”, di “matrimoni felici poi falliti”, di “uomini che cambiano di colpo”, o di “raptus” imprevedibili. Spesso l’inferno è subito, sempre, per sempre. E inizia sin dai primi giorni di convivenza. Sin dal primo “voglio controllare il tuo telefono” quando si esce la seconda volta a cena assieme.

Nella mente di costoro non c’è l’amore, non c’è mai stato, ma il controllo. Non c’è lo scambio amoroso, ma il potere. Si tratta sovente di carcerieri che allestiscono un inferno fatto di insulti, rabbia, degradazione, vessazioni, botte, perché la donna non può e non deve essere altro che un animale in gabbia, un cane da catena. La quasi totalità di questi assassini non si “ammala”, non sono incapaci di intendere e di volere. Non si pentono. Se voi poteste, come me, parlare con alcuni di loro, scoprirete che esistono e vivono tra noi delle iene lucidissime, capaci di progettare la loro giornata in funzione delle ‘ore d’aria’ che la compagna può o non può prendere.

Tempo fa, in un pubblico dibattito avente a tema la violenza di genere, uno di essi, che aveva sghignazzato lungo tutta la serata, mi avvicinò in separata sede e, accertatosi che nessuno potesse udirlo, mi disse con tono gentile: “Tu dottore parli bene, ma devi capire che le donne, tua madre, tua moglie, tua figlia, sono tutte delle p***ane. E, prima o poi, vogliono iniziare a vivere come pare a loro. Lo capisci? Ti parlo da uomo, non da dottore. Così mi capisci”. Preciso, lineare. Inattaccabile nella sua logica padronale. Quello che per le donne è l’inferno, per costoro è godimento. Il godimento del carceriere che trae piacere nel sentire il lamento del detenuto e sorride perché quel potere lo sostanzia. Vedere la propria compagna che soffre, che piange, che vive barricata in casa, che deve correre in bagno, il sommergerla di epiteti offensivi. Ancora: pedinarla, controllarla, insultarla.

Il sadismo si esprime qua nella sua massima e più raffinata forma. Sono riconoscibilissimi. Il loro fare è padronale, sono manipolatori, alcuni riescono a dissimulare un’aria ‘presentabile, altri nemmeno quello. Hanno la cravatta, la divisa, la giacca. Le stellette, la tuta da meccanico, o da muratore. La grisaglia, il camice bianco. Sono dotati di un pacchetto di frasi ad uso comune per mascherare la loro natura nel consesso sociale ma, appena chiusa la porta, appendono l’abito di scena utilizzato per attraversare indenni una società che non capiscono sino in fondo perché regolata da codici per loro estranei, per poi ripristinare tra le mura domestiche la legge del padrone e della sottomissione, la sola che ritengono vera e degna.

Il dilemma tragico di tante donne sta proprio qua: uscire ai primi segnali, chiedere aiuto alle istituzioni, agli amici, col rischio che lui le uccida falciando spesso anche i figli, o restare in casa bloccate dalla paura in attesa di un tempo migliore, crescendo la prole nel dolore obbligandola a respirare veleno? E’ un nodo apparentemente irrisolvibile, se non all’inizio.

Questi uomini vanno riconosciuti e allontanati prima di renderli padri di creature che ad essi, nel bene o nel male, dovranno fare riferimento. Un minuto dopo, è tardi. La paura di ripercussioni spesso spaventa comprensibilmente la donna che si sente sola, specie quando le sue denunce cadono nel vuoto. Laddove ci sono figli, essi crescono introiettando un modello di famiglia atroce, basato sulla paura sull’offesa, sull’umiliazione e sul ricatto. Semi che germineranno nei loro animi nel momento della crescita, generando eredità spesso inestirpabili che ne faranno uomini e donne marchiate da quel modello per la vita.

Frammenti da un recente incontro pubblico sul tema: “Dottore (ragazza giovane, dal pubblico) in pizzeria mi sono fermata a salutare un amico, lui mi ha preso la mano e me l’ha stritolata dicendo ‘non devi parlare con quello’. Devo farci caso?”. Certo, sì. Via, via subito. Mollalo. Ancora: “Dopo un mese da sogno, mi ha già fatto la lista di quelli che posso e non posso contattare su Whatsapp. Devo lasciarlo, vero?”. Sì, stasera stessa. Prima che sia troppo tardi.