di Claudia De Martino

Ci sarà ormai un prima e dopo 7 ottobre in Palestina e Israele. Dal terribile attacco a sorpresa perpetrato da Hamas in territorio israeliano nella giornata di sabato 7 ottobre, Israele è sotto shock come non avveniva da almeno cinquant’anni, avendo contato più vittime in un solo giorno dall’avvio della battaglia dello Yom Kippur del 6 ottobre 1973. Ad oggi 1200 persone, di cui la maggior parte civili, sono state brutalmente assassinate da Hamas con tattiche terroristiche in pieno stile Isis, con pick-up di terroristi, carichi di armi, lanciati in mezzo ad una festa per uccidere quanti più giovani possibile, torturarne e mutilarne alcuni, prenderne in ostaggio e trascinarne nella Striscia altri, per un numero che si aggira intorno alle 150 persone, e con infiltrazioni casa per casa e sterminio di intere famiglie, inclusi neonati sgozzati nelle loro culle, in pieno stile pogrom, nei kibbutzim e nelle località limitrofe alla Striscia. Atti di una brutalità tale da non solo scioccare l’opinione pubblica, ma ricordare al mondo che non si può convivere con un’organizzazione politica, come Hamas, che adotta tali metodi.

L’orrore provocato da Hamas ha colto di sorpresa una società che non si attendeva assolutamente questo attacco – riconfortata da un coro semi-unanime di analisti, ufficiali dell’esercito e funzionari del Mossad e del Ministero della difesa che non solo non aveva previsto una possibile offensiva ma sosteneva che Hamas cercasse una de-escalation – ma che anzi era impregnata di un mito di invincibilità dettato dall’ampio margine di deterrenza dell’esercito israeliano (Tsahal) nei confronti di nemici molto più deboli, poveri e divisi, considerati privi di capacità politiche, di pianificazione organizzativa e di strumenti tecnologici per condurre una guerra all’altezza del XXI secolo. A quattro giorni di distanza da quell’attacco che la maggioranza dell’establishment militare e dell’intelligence israeliana riteneva impossibile, è chiaro che le false sicurezze su cui poggiava la stabilità della società israeliana sono state scosse dalle fondamenta.

In primis il mito, sostenuto dall’attuale governo Netanyahu, ma anche dal precedente di Naftali Bennet e Yair Lapid, che si potesse “comprare” la pace attraverso il lasciapassare di materiali e merci nella Striscia, il trasferimento di fondi e donazioni estere indispensabili a pagare gli stipendi e a provvedere ai bisogni essenziali della popolazione e l’elargizione di circa 18.000 permessi di lavoro per i cittadini di Gaza. Hamas, che ha abilmente finto di “stare al gioco”, ha in realtà sfruttato capillarmente il tempo della presunta pace per acquistare armi, rinnovare il suo arsenale e pianificare nei dettagli il suo attacco terroristico, che dal punto di vista militare si può sfortunatamente considerare più che riuscito. La responsabilità di aver da un lato rafforzato l’assedio e l’isolamento della Striscia, polarizzato e diviso ulteriormente le due fazioni palestinesi tra loro e creduto ingenuamente che Hamas potesse accontentarsi dello status quo ricadrà inevitabilmente sull’attuale governo Netanyahu, come un errore di calcolo o come un atto di insipienza e/o malafede.

In secundis, l’invincibilità israeliana dettata dalla sola superiorità tecnologica non si è dimostrata un deterrente sufficiente contro un attacco di così larga scala da parte di un esercito coeso e ideologico come quello di Hamas. L’attacco è iniziato con il lancio di oltre 3000 missili, molti dei quali prontamente intercettati dalla Cupola d’acciaio, ma anche con il molto meno sofisticato lancio oltreconfine di piccoli deltaplani non rilevabili da parte dei radar con cui i terroristi si sono silenziosamente calati sul “Festival della natura” in corso nel deserto, a Re’im, a dieci chilometri di distanza dalla Striscia, mietendo 260 vittime. La rete elettrificata di separazione tra Israele e la Striscia di Gaza è stata sabotata in più di 15 punti senza che unità dell’Esercito intervenissero prontamente: chiaro segnale che vi fossero poche pattuglie di turno dislocate nell’area e pronte ad attivarsi, probabilmente anche a ragione delle festività ebraiche in corso (Sukkot). Le comunicazioni tra unità di Tsahal nel sud sono state interrotte dai terroristi senza che gli altri comandi dislocati altrove nel Paese si accorgessero della falla e della mancanza di comunicazione per oltre sei ore.

Inoltre, Israele ha volutamente ignorato il potenziale di una nuova generazione di combattenti per la Resistenza islamica – nel numero di oltre 1500 – che si sono immolati in un’impresa semi-suicida, ovvero con un’altissima possibilità di morire o venire catturati, per risollevare non tanto – come auto-professato – l’onore di al-Aqsa e dei luoghi santi dell’Islam, quanto il morale di tutti quei Palestinesi il cui bisogno di identità e protezione collettiva si salda simbolicamente con quei luoghi sacri.

Infine, il governo israeliano ha ignorato l’ultimo avvertimento: quella serie di incontri avvenuti a Beirut tra i vertici di Hezbollah, della Jihad islamica e di Hamas per un presunto “coordinamento”, ovvero probabilmente l’affinamento dei piani militari già predisposti in vista di questa operazione. È indubbio, infatti, che Hamas sia notevolmente cresciuta dal punto di vista della minaccia militare e che non possa aver compiuto un tale salto di qualità senza i generosi contributi finanziari del Qatar e forse in parte anche dell’Ue, i cui aiuti allo sviluppo possono essere stati deviati per altri scopi, ma anche l’expertise, le capacità militari e di guerriglia sviluppate da Hezbollah nella lunga guerra in Siria con il patrocinio e il know-how, ma non il coinvolgimento diretto, della Repubblica islamica di Iran.

Il 7 ottobre sarà indubbiamente ricordato come la giornata più nera di Israele negli ultimi cinquant’anni, ma negli occhi dell’opinione pubblica rimarranno scolpite le immagini di giovani israeliani e stranieri che ballano beatamente fino all’alba a dieci chilometri dalla Striscia di Gaza – uno dei territori più disperati al mondo, con una densità umana allarmante, sotto costante assedio militare dal 2006, priva di servizi di base e dichiarata da un rapporto delle Nazioni Unite un luogo invivibile già dal 2020 -, senza minimamente prevedere il delirio e l’orrore che si sta riversando loro addosso.

C’è da chiedersi se Hamas, che si prefigge paladina della causa palestinese, abbia effettuato questa operazione terroristica nel nome e per conto di quegli oltre due milioni di palestinesi, già costretti a vivere in una prigione a cielo aperto, incassando preventivamente il loro assenso in qualche forma di consultazione, perché oggi in realtà sembra solo che non abbia stentato a sacrificarli, esponendoli a ritorsioni tremende come i bombardamenti aerei israeliani a tappeto a cui stiamo assistendo in questi giorni e che vedremo intensificarsi in futuro, non appena la sorte degli ostaggi israeliani sarà chiarita. Più di due milioni di persone che ora sono inermi in attesa della loro sorte, senza alcun luogo verso cui scappare e dove cercare rifugio, senza nessuno che voglia andare in loro soccorso: una sorte che si annuncia come un altro eccidio collettivo trasmesso in diretta tv, almeno finché i generatori elettrici permetteranno ai giornalisti di trasmettere immagini e racconti dal suo interno.

Ed è innegabile che, nonostante i terribili costi umani che ha già comportato, l’operazione omicida di Hamas avrà avuto il risultato di riportare la “questione palestinese” all’attenzione pubblica nell’agenda politica del XXI secolo, da cui sembrava ormai depennata come un rumore sordo di fondo.

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