“La situazione è drammatica e gravissima. Negli ospedali sono esauriti in posti in rianimazione, mandano a casa i malati che non hanno bisogno di cure urgenti per trovare posti. Ci sono migliaia di feriti. Manca l’elettricità e stanno finendo le scorte alimentari. Ci sono intere famiglie uccise, cancellate dall’anagrafe. E se ci sarà un’invasione di terra ci saranno ancora più morti”. Sami Abu Omar vive nella città di Khan Younis, città di 150mila abitanti nel sud della Striscia, dove nelle scorse ore sono stati distrutti edifici e moschee ed è stato colpito il molo. Parla in italiano grazie agli studi fatti a Pisa e al Fatto Quotidiano descrive il dramma che sta vivendo da sei giorni insieme alla sua famiglia e a tutti gli abitanti di Gaza. Oltre due milioni di persone che, ora per ora, stanno pagando un prezzo sempre più alto dell’assedio “totale” deciso da Israele come rappresaglia agli attacchi e le stragi di Hamas. Ci sono gli ospedali al collasso, le strade coperte di macerie e inagibili, e il cibo che comincia a scarseggiare. Le persone, racconta, non hanno un posto dove rifugiarsi. Vivono nella paura che la prossima abitazione bombardata possa essere la loro. “A Gaza non ci sono bunker, o stai a casa o stai a casa”. Molti degli sfollati hanno trovato un posto nelle scuole del’Onu. “Ma lì possono stare solo donne e bambini“. Gli uomini restano per strada oppure nei vanno negli ospedali. “Cercano zone più sicure, che qui però non esistono”. Quella che prima dell’inizio dell’escalation è sempre stata definita come “una prigione a cielo aperto”, ora appare al mondo intero come una trappola per i gazawi. L’unica via di fuga dalla Striscia sarebbe il valico di Rafah, ai confini con l’Egitto, ma nei giorni scorsi è stato preso di mira dall’aviazione israeliana. “Non andrò in Egitto e credo che il 99% dei gazawi non andrà. Non vogliamo un’altra diaspora“.

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Dopo il 7 ottobre niente sarà più come prima: i destini di Gaza e Israele sono intrecciati

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