di Gianluigi Perrone*

Venerdì 6 ottobre mia moglie mi dice, sarcasticamente, “oddio, domani è il compleanno di Putin. Qualcosa sta per succedere”, riferendosi alle macabre voci sulla morte della giornalista Anna Politkovskaja. Il giorno successivo un conoscente, diplomatico siriano, mi chiede se avessi sentito dell’attentato a Hom, in Siria, dove sono morti 100 civili, uccisi da un misterioso drone, attentato fantasma ancora non rivendicato da nessuno.

Da sabato 7 ottobre tutto il mondo si focalizza sulla striscia di Gaza, inclusa Pechino, qui dove vivo. Avevo parlato delle prime reazioni del governo cinese all’attentato di Hamas nel mio podcast, e sostanzialmente Xi Jinping ribadisce la sua proposta di una risoluzione pacifica, con la concessione dell’indipendenza alla Palestina con capitale East Jerusalem. Infatti solo a giugno Xi aveva proposto un piano di pace di tre punti, con una promessa di partenariato strategico, per quello che oggi sembra un conflitto inevitabile. Il piano era parte del progetto di World Peace che Pechino ha recentemente promosso, e che includeva il cessate il fuoco anche per Iran e Arabia Saudita.

Alla luce di quanto detto c’è da riflettere su un dato: quando la Cina parla di pace, intende soprattutto pace per se stessa, e ciò può avvenire forse solo se quello che è divenuto il principale nemico, gli Usa, si trovi costretto nell’impegno in altri conflitti. Era già stato paventato tempo fa da analisti locali che il conflitto in Ucraina, un potenziale conflitto tra Israele e il mondo arabo, e un terzo conflitto in Asia (si dice una seconda guerra di Corea), avrebbero permesso a Pechino di focalizzarsi sui problemi economici in cui verte l’economia cinese, e di prendere ciò di cui avrebbe più bisogno per un eventuale conflitto nello stretto di Taiwan: il tempo.

E’ noto che per Pechino l’alzarsi della tensione bellica è estremamente pericoloso, tuttavia lo diventa sicuramente di meno se il radar degli Stati Uniti intercetta priorità distanti dalla Cina. Vista da questa prospettiva, la promozione dell’alleanza nel Medio Oriente, la recente visita in Cina di Assad gestita da Pechino con i guanti bianchi e l’imminente incontro di Putin con Xi Jinping a fine mese tratteggiano un disegno emblematico.

Il Ministero degli Esteri cinese è molto vicino a Israele per via degli scambi commerciali che, nonostante si siano recentemente raffreddati, sono preziosi per entrambe le parti. Tuttavia, pur incalzato, il portavoce non ha mai nominato, né quindi condannato Hamas. La Cina sta quindi giocando una partita che conosce bene.

Tra gli ostaggi vi sono almeno tre cittadini cinesi, oltre a Noa Argamani, studentessa sino-israeliana protagonista di un drammatico video di rapimento del quale la stampa ha chiesto conto a Mao Ning, portavoce del Ministero degli Esteri cinese. Il silenzio ufficiale di Pechino e l’atteggiamento pro-Palestina dell’opinione pubblica ha deluso Israele.

*CEO di Polyhedron VR Studio a Pechino

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