Ilaria Tassi vive da vent’anni negli Stati Uniti, dove ha costruito la sua carriera da immunologa e manager nel settore delle startup. È arrivata negli Usa per l’ultima parte del suo dottorato, che ha conseguito alla Sapienza di Roma. Quando l’ha finito, l’università di St. Louis di Washington Dc, dove era stata visitor, le ha proposto di restare per un post-doc di cinque anni e lei ha accettato. “Avevo voglia di fare ricerca all’estero – racconta a ilfattoquotidiano.it – ma mi ha convinta a rimanere anche il clima di autonomia e informalità che si respirava rispetto all’Italia”. Poi la passione l’ha portata oltre i confini accademici, così da dieci anni lavora nella ricerca industriale e oggi è tra i direttori della parte di biologia e farmacologia di una startup con base a San Francisco che sviluppa farmaci con l’intelligenza artificiale.

Laureata in Biologia a Roma, dove è nata, si è specializzata in Immunologia e in particolare nelle Natural killer cells, cioè le prime cellule sane che si attivano per uccidere quelle malate. “La mia formazione in Italia è stata fantastica – dice – ho visto pochi studenti preparati come quelli italiani”. Almeno fino alla laurea. “Il dottorato negli Usa è veramente faticoso rispetto a quello italiano – racconta – ma c’è molta più autonomia: non ci sono gerarchie, un dottorando può condurre le sue ricerche in modo indipendente e ha un rapporto diretto con il professore”.

Dopo essersi formata interamente a Roma, quando è andata all’estero a stupirla è stato tra le altre cose il fatto di trovarsi in mezzo a colleghi provenienti da tutto il mondo. Uno scenario mai visto prima nonostante avesse studiato nella capitale. “La cosa che mi dispiace dell’Italia – dice – è che non si riescono ad attrarre studenti stranieri”.

Negli ultimi anni le università italiane stanno incentivando programmi di mobilità internazionale e alcune, tra cui la Sapienza, riescono a entrare nelle classifiche delle migliori università del mondo. Ma anche gli atenei più competitivi hanno pochissimi iscritti stranieri, intorno al 3% contro l’11% della Germania e i numeri non migliorano dal dottorato, dove i non italiani sono solo il 16% contro, per esempio, il 38 della Francia (dati Ocse 2022, elaborati da Lavoce.info).

Questi dati hanno un impatto sulla capacità stessa di produrre buona ricerca. “È fondamentale capire come si lavora fuori – spiega Tassi – per portare quello che c’è di buono in Italia, altrimenti si rimane con una mentalità troppo ristretta”. Nel laboratorio di St. Louis in cui ha lavorato, chi finiva il dottorato era costretto a fare il post-doc da un’altra parte e chi finiva il post-doc a spostarsi a sua volta. In Italia, questo non solo non è obbligatorio in nessuna università, ma quasi sempre chi arriva a ottenere un posto lo fa dopo tanti anni di precari assegni di ricerca rinnovati sempre nello stesso ateneo. “Da una parte capisco che sia così – dice l’immunologa – è difficile spostarsi ed è difficile assumere persone non fidate, ma bisogna cambiare punto di vista, altrimenti non si impara”.

Finito il post-doc, ad assumerla è stato il National Institute of health, sempre come ricercatrice ed è lì che è rimasta per cinque anni. Poi ha cominciato a dare voce a quella che nel tempo è diventata la sua seconda vita professionale. “Per tanto tempo sono stata indecisa se continuare all’università o fare una transizione all’industria. Avevo avuto la proposta di ritornare a La Sapienza, nel laboratorio in cui avevo svolto il dottorato, con un programma di rientro dei cervelli, ma non ero pronta”. Finito il lavoro all’NIH allora ha abbandonato l’accademia. “Mi è sempre piaciuto fare ricerca di base – racconta- ma quando sono passata all’industria mi sono entusiasmata, perché oltre a essere applicata è una ricerca molto più collaborativa”.

Nonostante vivesse ormai da anni a Washington Dc, ad attirarla erano le startup o le piccole aziende biotech di San Francisco. “Non conoscevo questo mondo – spiega – ho dovuto studiare. Ma capivo che c’era molta ricerca e anche tanta possibilità di crescita, così ho accettato la sfida”. È rimasta nella prima startup per otto anni, lavorando alle cellule coinvolte in processi neurodegenerativi. All’inizio era solo in laboratorio, poi è stata direttore associato per tre anni. È proprio con questo ruolo che è riuscita a crescere coniugando capacità gestionali e scientifiche.

Oggi lavora in una startup di San Francisco che mira ad accelerare la scoperta di farmaci sfruttando l’intelligenza artificiale. “Si cerca di accorciare i tempi del trial ottimizzando i processi di screening di tutte le molecole tramite l’AI” spiega. Anche questa, una competenza che non aveva mai considerato prima. “Mi è sempre piaciuta l’idea di imparare sempre cose diverse”, dice. Dopo vent’anni trascorsi negli Usa, Tassi sta iniziando a considerare l’idea di tornare per lavorare nell’ambito dell’innovazione e della biotech, ma non ha mai visto finora delle opportunità concrete: “In Italia per le startup non c’è mercato”, dice.

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