Le detrazioni fiscali temporanee per chi rimpatria in Italia dopo aver lavorato all’estero vanno verso un taglio netto. Che comporterà un inevitabile diminuzione dei professionisti che fanno ritorno. Se la bozza di decreto legislativo del governo Meloni che comprende le novità sul cosiddetto “rientro dei cervelli sarà confermata, chi stava pensando di tornare dovrà fare i conti dal primo gennaio 2024 con una stretta alle agevolazioni previste finora e con criteri di ingresso e di permanenza più rigidi. A farne le spese, i settori che nel nostro Paese sono meno sviluppati, come la tecnologia, l’innovazione e la medicina. Settori in cui le retribuzioni sono talmente inferiori a quelle offerte all’estero che per convincere qualcuno a rifare le valigie è stato necessario introdurre un regime fiscale di favore oggettivamente molto costoso per le casse dello Stato. “Vorremmo rientrare perché amiamo il Paese in cui siamo nati – spiega a ilfattoquotidiano.it una coppia di veterinari altamente specializzati che vive fuori dall’Unione europea da sette anni – ma se questa modifica fosse confermata, tornare sarebbe un rischio troppo grosso per il nostro futuro”. Nella petizione online lanciata dal Gruppo rientro Italia per fermare il testo approvato in cdm si legge che “le modifiche proposte costringeranno molti a emigrare nuovamente o a non rientrare mai”.

Come cambierebbero le condizioni per chi rimpatria – La bozza del decreto sulla fiscalità internazionale approvato lo scorso 16 ottobre in Consiglio dei ministri conferma gli sgravi attuali solo per ricercatori e docenti universitari mentre li riduce per dirigenti, imprenditori, professionisti del settore intellettuale e scientifico e di alta specializzazione e tecnici. Per loro la detassazione scenderà al 50%, mentre per chi rientra oggi il 70% del reddito non è imponibile e lo sgravio sale al 90% se si sceglie di andare a vivere in una regione del Sud. Inoltre i lavoratori avranno diritto agli sgravi fiscali soltanto se hanno un reddito inferiore a 600mila euro e risiedono all’estero da almeno tre anni anziché i due previsti finora. Una volta rimpatriati, dovranno rimanere in Italia almeno per cinque anni pena rimborsare allo Stato tutti i contributi non pagati, vincolo che a oggi è posto sui tre anni di permanenza. “Era necessaria una razionalizzazione della norma per evitare casi di elusione”, commenta a ilfattoquotidiano.it Elbano De Nuccio, presidente del Consiglio nazionale dei dottori commercialisti e degli esperti contabili.

Le voci di chi ha beneficiato delle detrazioni fiscaliPaolo è un ingegnere elettronico che ha conosciuto sua moglie al lavoro, in Italia. Hanno rispettivamente 49 e 35 anni. Erano entrambi dipendenti di una grossa azienda di componentistica del Meridione quando hanno ricevuto un’offerta straniera e l’hanno accettata. “Ci siamo trasferiti – racconta a ilfattoquotidiano.it – perché ci prospettavano una posizione migliore in un contesto lavorativo più internazionale. All’estero abbiamo potuto costruire una carriera che in Italia avremmo fatto fatica a ottenere”. Nel loro settore, il mercato nazionale è povero. La ricerca e il tessuto industriale, soprattutto al Sud, non sono paragonabili a quello che esiste altrove. “A spingerci a rientrare – ha detto – sono stati gli affetti e le condizioni di salute dei nostri genitori. Dal punto di vista economico, a stento, siamo andati in pari. Probabilmente non saremmo tornati senza le detrazioni fiscali”. Oggi pagano il 10% di Irpef e sono tornati per assistere un genitore malato. “Se avessimo fatto un ragionamento esclusivamente professionale saremmo rimasti fuori”, spiega Paolo, che ci tiene a sottolineare un aspetto: “Scrivetelo a caratteri cubitali, per favore – dice – il lavoro nella tecnologia a elevata specializzazione non è per niente valutato rispetto all’estero. Con misure come quelle della bozza, si disincentiva la gente a tornare. Così l’Italia non può essere attrattiva per un lavoratore altamente qualificato”.

Un altro ingegnere, Flavio, sviluppatore software, racconta invece quanto sia stato difficile lasciare tutto sapendo di dover ricominciare da zero. “Quando mi hanno chiesto di tornare – racconta – avevo detto di no, perché il salario era molto inferiore a quello che percepivo, e fuori stavo bene. Poi mi hanno parlato delle detrazioni, che nel mio caso erano del 90%. A quel punto lo stipendio era equiparabile, con il lato positivo che il costo della vita sarebbe stato più accessibile, così ho preso in considerazione il ritorno”. Flavio, che ha vissuto nel Nord Europa, ora contribuisce a ripopolare una regione del Sud sempre più disabitata e povera. Quando è arrivato nell’azienda in cui oggi lavora da due anni, dopo poco gli hanno assegnato un ruolo dirigenziale e chiesto di creare un team internazionale. “È molto difficile trovare questo tipo di specializzazione nel mondo dello sviluppo software – spiega – e ancora più dura è convincere chi è altamente formato a venire in Italia”. Questo innanzitutto per ragioni economiche. “Gli stipendi nel nostro Paese sono veramente bassi rispetto alla media di settore e uno dei pochi modi di attrarre lavoratori qualificati è farli tornare dove hanno la famiglia”. Conscio della sua esperienza, Flavio ha fatto colloqui a persone da tutto il mondo privilegiando gli italiani expat. Qualcuno è già arrivato, ma altri sono a rischio. “Al momento – spiega – siamo in trattativa per assumere una persona molto in gamba che lavora fuori dall’Europa. Ma la proposta del governo ha creato uno stallo. Se diventasse legge, le condizioni che l’azienda potrebbe offrire cambierebbero radicalmente, e lei ci ha già detto che non accetterebbe”.

La scelta di abbandonare casa e lavoro all’estero va meditata. Il tempo per riflettere però non c’è più. Se la modifica passasse, all’improvviso rimarrebbero poche settimane per decidere. “Con questa legge – spiega Flavio – non riuscirò ad assumere nessuno. Le aziende non potranno permettersi di riportare indietro i cervelli in fuga”. Anche se a livello fiscale il suo status non ne risentirebbe, l’ambiente lavorativo nel tempo diventerebbe meno performante. “Sono abituato a dialogare con colleghi che hanno visto tecnologie in tutto il mondo – spiega – non nego che forse io stesso me ne andrei di nuovo se non potessi costruire intorno a me un team che si è formato all’estero”.

Chi vorrebbe rientrare ma non lo farà se la bozza diventa leggeC’è poi chi da tempo progetta di tornare ma ha sempre rimandato. È il caso di Irene e Andrea, una coppia di medici veterinari di 35 e 38 anni. Dopo la laurea hanno cominciato a lavorare in Italia, ma trovavano lavori poco retribuiti e non tutelati. Sono andati via sette anni fa restando con la mente sempre a casa. Ora, tra i più specializzati al mondo, sono invitati a convegni internazionali per esporre i loro casi clinici e sono direttori sanitari di un prestigioso ospedale. “In Italia nessuno investe nel nostro settore – spiegano – c’è una concezione della veterinaria molto diversa, non solo per lo stipendio: altrove la professione è stimata e noi medici siamo affiancati da una serie di figure che rendono la quotidianità più sostenibile”. Nella loro clinica, hanno un contratto da alti dirigenti, benefit e tutele che in Italia neanche un veterinario del loro livello sogna: sette settimane di ferie all’anno, malattia, assicurazione sanitaria, maternità. Sei mesi fa hanno iniziato a sondare il terreno in due grossi ospedali italiani. “Sono loro che ci hanno contattati per capire se fossimo interessati – racconta Irene – siamo andati personalmente nelle strutture. Ci ha stupito che chi ci faceva i colloqui non parlasse mai della retribuzione. In un caso dopo un po’ ci hanno detto qual era l’offerta economica: totalmente inadeguata”. Irene parla di una proposta a partita Iva, un salario dieci volte inferiore a quello che percepisce all’estero e nessuna tutela. “Non abbiamo avuto il coraggio di chiedere se la malattia fosse retribuita – spiega – perché ci sembrava tutto poco chiaro”.

Per loro il rientro sarebbe in una delle regioni con le agevolazioni oggi meno vantaggiose. Se la modifica fosse confermata, a metterli in crisi sarebbe soprattutto il vincolo della permanenza di cinque anni, pena il rimborso delle tasse detratte, con interessi e sanzioni. “Per la nostra professione, tornare in Italia sarebbe fare un passo indietro di almeno 20 anni – dice Andrea – per il modo in cui sono trattati i veterinari e organizzate le strutture. La nostra paura è anche che potremmo trovarci male”. Al momento dell’intervista, Andrea sta studiando per prendere la cittadinanza estera. “Per il livello che abbiamo raggiunto, e per il divario professionale che vive la categoria rispetto all’estero, a queste condizioni, tornare sarebbe un rischio professionale troppo grande”, spiega Irene.

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