“Essere andata via mi ha aiutato a crescere, ad avere una mentalità più libera e aperta. Mi ha cambiato la vita solo in meglio, nonostante tutto”. Dopo aver trascorso tre anni a Melbourne, in Australia, con il covid Cecilia Bichiri, 31 anni, è stata “costretta a tornare dal governo, incapace di gestire la pandemia”, ed era rimasta senza soldi e senza lavoro. Eppure non rinnega la sua esperienza fuori dall’Italia. “Anche se andrà male, per partire bisogna avere solo un po’ di coraggio”. All’inizio tutto doveva durare tre mesi, il tempo di trascorrere una vacanza post-laurea dall’altra parte del mondo. Cecilia, una laurea in diritto del lavoro e la paura di non trovare futuro in Italia, da Torino ha preso un volo in direzione Melbourne nel dicembre del 2018. “Poi mi sono innamorata del Paese e sono rimasta”, racconta al Fatto.it.

Nei suoi anni in Australia dice di aver cambiato numerosi scenari, “più di quanti ne abbia cambiati in Italia in tutta la vita”. A Melbourne Cecilia ha trovato subito lavoro, con una paga “ben più alta rispetto agli stipendi italiani”. È così che per tre anni ha gestito un negozio di gelati e torte in zona St Kilda, il tipico quartiere “balneare e radical chic”, con un carattere cosmopolita e l’atmosfera d’avanguardia, e uno stile di vita “più lento e leggero rispetto al nostro”, ricorda. Gli australiani, per esempio, “lavoravano molto poco – continua –, rispetto a noi italiani, che lavoravamo il più possibile perché il costo della vita era veramente alto”. Così, solo dopo “dieci ore di duro lavoro” per Cecilia arrivava il momento di chiudere il negozio e andare in spiaggia per ritrovarsi con gli amici.

In generale il costo della vita in Australia, racconta Cecilia, era alto, ma allo stesso tempo gli stipendi erano buoni. “C’erano tantissime opportunità, potevi fare il lavoro che preferivi e avere stipendi settimanali dignitosi”, che come minimo erano di 700 dollari australiani (circa 420 euro). Un mercato del lavoro, quindi, “florido – continua –, con una domanda talmente alta che non soddisfaceva i posti vacanti”. Il tutto si affiancava ad un sistema fiscale “totalmente diverso”: mentre l’Italia faceva i conti con l’inflazione e le aliquote Irpef, lì ogni anno “ti restituivano un’alta percentuale di tasse pagate rispetto all’anno precedente”.

A costringerla a tornare a casa è stata la gestione della pandemia da parte del governo, guidato dal liberale Scott Morrison. “Durante il covid ho perso il lavoro, l’Australia non è stata in grado di gestire tutto ciò che è accaduto”, ricorda. Nei primi mesi dalla pandemia, infatti, il governo ha aiutato e finanziato “solo chi aveva la cittadinanza australiana”. Molti italiani come lei, emigrati negli anni precedenti, si sono trovati nella stessa situazione: senza impiego, senza sussidi e senza assistenza. “Sono rimasta sorpresa, non mi aspettavo una reazione del genere. È stato terribile e per la prima volta ho provato rabbia verso questo Paese”, continua Cecilia. L’estensione degli aiuti anche agli immigrati è arrivata solo “dopo un anno di pandemia”, perché non “c’era più manodopera, non c’erano più lavoratori”. Tutto ciò ha provocato una grave carenza di prodotti sugli scaffali dei supermercati e dei negozi di tutte le grandi città, con il costo del lavoro che “era schizzato alle stelle (un lavapiatti prendeva 50 dollari l’ora) le coltivazioni di frutta e verdura stavano marcendo, non c’erano più braccianti, i pomodori erano arrivati a costare 25 dollari al chilo”. Solo a quel punto Morrison ha fatto un appello ai giovani stranieri e agli studenti internazionali disposti a venire a lavorare e studiare in Australia, promettendo uno sconto sulle tasse per la domanda di visto: ma ormai per Cecilia e molti italiani come lei era troppo tardi.

Rientrata a Torino, Cecilia ha trovato un posto in una grande multinazionale come addetto alle risorse umane, ma dopo due anni e sei mesi di stage (“l’esperienza più brutta della mia vita”), ha rassegnato le dimissioni e oggi lavora in un’associazione datoriale, nel settore dove ha studiato. Il consiglio che si sente di dare è quello di andare all’estero il più possibile, anche cambiando diversi Paesi. Ogni tanto sogna ancora di partire. È vero, avrebbe preferito rimanere qualche anno in più all’estero, ma i sacrifici “non sono stati vani – risponde, pensando all’Australia – grazie, soprattutto, agli anni trascorsi a Melbourne. Le esperienze all’estero – conclude – servono per differenziarti dagli altri nel mondo del lavoro”.

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