Il gruppo Gedi, di proprietà della famiglia Agnelli – Elkann, pare aver deciso che il governo Meloni debba cadere sotto i colpi dei mercati. Una riedizione dell’uscita di scena dell’esecutivo Berlusconi nel 2011 che portò a palazzo Chigi Mario Monti. E così sta facendo di tutto per evocare i giustizieri del mercato obbligazionario. È difficile spiegare altrimenti l’accanimento, ed il malcelato compiacimento, con cui da settimane compaiono sulle prime pagine di Repubblica e La Stampa notizie allarmanti su spread e rendimenti dei Btp. Soprattutto colpisce un insistere su un “caso Italia” che invece non c’è. Durante l’estate i due quotidiani sono stati infarciti di interviste a banchieri, ex banchieri, economisti per attaccare la tassa sui maxi profitti delle banche. Legge che infatti si è impaludata in parlamento. Ora la posta si è alzata. A dare manforte ai due giornali, c’è pure il settimanale Economist che è inglese ma che fa sempre capo agli Agnelli attraverso Exor. Il tutto imbastito in un intreccio di citazioni “infragruppo” per darsi reciproca credibilità.

A sostegno della sua versione Repubblica cita l’Economist secondo cui l’Italia sarebbe “irresponsabile”. Il settimanale inglese, che ha ormai perso l’autorevolezza di un tempo, può naturalmente fare le valutazioni che crede. Ma non è la Bibbia come invece si tende a credere in Italia con un certo provincialismo. I casi in cui “non ci ha preso” sono tanti. Nella stampa finanziaria anglosassone, che sposa interamente la tesi di una presunta, e mai dimostrata, superiore saggezza dei mercati, c’è una sorta di riflesso pavloviano per cui appena un paese del Sud Europa aumenta il deficit scatta l’allarme rosso. Un altro organo di stampa che non ama solleticare gli appetiti della speculazioni è il Financial Times che sull’Italia sforna spesso analisi piuttosto approssimative. Qualche giorno fa il “quotidiano della City” si è spinto ad affermare come la crescita dei rendimenti di tutto il mondo dipendesse dalla decisione dell’Italia di fare più deficit. Il giorno dopo i rendimenti sono tornati al punto di partenza. Evidentemente gli investitori hanno una memoria da pesce rosso visto che la Nadef con le cifre della finanza pubblica lì stava e lì è rimasta. Piccolo inciso. Che i mercati siano in grado di condizionare pesantemente le scelte politiche dei governi è cosa scontata. Questo è il mondo che abbiamo voluto, sebben in molti inizino a pentirsene.

Le scelte del governo sono tutt’altro che esenti da critiche (che questo giornale non ha mai lesinato) ma per altri motivi. E, beninteso, la situazione dei nostri conti pubblici non va presa alla leggera. Con uno dei debiti più grandi in rapporto al Pil tra i paesi europei appena sul mercato si alza una brezza sul mercato la nave con più vela al vento è quella che oscilla di più. Un richiamo alla prudenza è opportuno purché non lo si faccia stravolgendo la realtà. I rendimenti obbligazionari stanno salendo in tutto il mondo, a cominciare dagli Stati Uniti, dove un titolo decennale paga ormai quasi il 5%. Sono aumentati i rendimenti dei bund tedeschi, dei titoli spagnoli, di quelli francesi, etc. Nell’ultimo mese i bond italiani sono stati più penalizzati ma, se si guarda alle variazioni di rendimento nell’intero ultimo anno, i Btp segnano un + 41 punti base, gli spagnoli + 75, i francesi + 81, i tedeschi + 82. E infatti 12 mesi fa lo spread era a 250 punti (oggi 200).

Nelle ultime settimane i rendimenti hanno preso a salire ovunque sui timori che le banche centrali mantengano i tassi di interesse su livelli elevati più a lungo di quanto ipotizzato fino a qualche tempo fa. Qualsiasi elemento che rafforzi questa lettura (esempio, come accaduto oggi, un aumento degli occupati che rende meno impellente per la Federal Reserve allentare la stretta) provoca un sussulto nei rendimenti. L’Italia in questo non c’entra nulla o molto poco. Tutto bene quindi? No. Come si diceva, l’Italia, che ogni anno deve piazzare sul mercato titoli per circa 300 miliardi di euro per rimpiazzare quelli che arrivano a scadenza, è più sensibile di altri paesi a queste variazioni. Le risorse da destinare al pagamento degli interessi salgono più rapidamente che altrove e questo drena risorse da destinare ad altri tipi di spesa. Quindi è bene che Roma si muova con prudenza e consapevolezza. La prossima legge di bilancio farà ricorso al deficit ma quella che si prospetta non è certo una manovra allegra. Anzi, sarà molto “triste”. In tutti questi anni l’Italia è sempre stata molto rigorosa nella gestione dei suoi conti pubblici e, anche per questo, è cresciuta meno degli altri paesi europei. Tolta la parentesi del Covid, i saldi primari (la differenza tra quanto un stato spende e quanto incassa con le tasse) sono sempre stati positivi.

In questi giorni si è arrivati a rievocare il 2011 che però, per fortuna, rimane lontano. Allora lo spread superò i 500 punti, i rendimenti dei Btp raggiunsero il 7,25% e, per di più, con tassi della Bce all’1% (non al 4,5% odierno) ed un’inflazione più bassa di oggi (fattore che appesantisce il peso dei debiti). Peraltro anche in quell’occasione in cui la sostenibilità del debito italiano parve essere effettivamente al limite, non mancarono spintarelle per accelerare la caduta come emerge da tanti rendiconti postumi, a cominciare da quello dell’ex segretario del Tesoro americano Timothy Geithner.

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