Un calo del 5% per gli stipendi della pubblica amministrazione e del 3,7% per i consumi intermedi, cioè gli acquisti di beni e servizi che comprendono voci come “le Tac per gli ospedali, le lavagne per le scuole, le gazzelle della polizia, i mezzi dei vigili del fuoco”. Una riduzione delle prestazioni sociali effettive dell’1,6%. Un crollo delle spese in conto capitale superiore al 20%. Sono le macerie lasciate sul campo dalla legge di Bilancio per il 2023, la prima firmata dal governo Meloni. “Eccola la spending review nella versione di Giancarlo Giorgetti: tagli lineari della spesa pubblica senza alcun criterio”, commenta Gustavo Piga, ordinario di Economia politica a Tor Vergata, mentre traduce in termini reali – cioè sottraendo un’inflazione pari al 5,8% – i dati nominali contenuti nelle tabelle della Nadef. Mentre si moltiplicano veline e indiscrezioni sulla manovra 2024, zavorrata da un pil in rallentamento, Piga parte dai numeri più solidi: quelli sull’anno in corso.

Numeri che confermano le attese e mostrano ancora una volta una stretta significativa, in contrasto con le promesse dei partiti di maggioranza che volevano dar battaglia alle regole europee sui conti pubblici per spingere la crescita. Non poteva che andare così, argomenta il docente che presiede l’Osservatorio sul Recovery plan di Tor Vergata e Promo Pa, visto che il deficit/pil in corso d’anno è stato ridotto dal 5,6% programmatico previsto nel Def (al netto del Superbonus che lo porta all’8%) al 5,3% tagliando la spesa pubblica reale. “Il deficit è sceso dello 0,3% in rapporto al pil e la crescita attesa del pil dello 0,2%, dall’1 allo 0,8%: tutto torna”. Ma tagliare la spesa “improduttiva” non dovrebbe aprire spazi per utilizzare meglio quelle risorse? “L’idea che la spesa corrente sia brutta di per sé è un mito da sfatare. Lì dentro ci sono i fondi per scuola, università, sanità, sicurezza. E gli stipendi degli statali. Se li congeli tagli la qualità dei servizi alle imprese, con un effetto negativo sulla loro produttività, e non riesci a spendere i soldi del Pnrr“. Insomma: il contrario di quel che serve per crescere.

La parabola del Piano nazionale di ripresa e resilienza è istruttiva: la sua partenza, nel 2020, aveva indotto anche i mercati a sperare in una svolta rispetto al circolo vizioso dei tassi di crescita da zero virgola e del debito/pil da tenere sotto controllo. “Non a caso lo spread, che prima dell’accordo europeo stava ai livelli di oggi, nel primo anno del piano è crollato a 100 punti“, ricorda il docente. “Ma il mercato premia la capacità di fare investimenti, non la mera disponibilità dei fondi. Così, quando si è visto che la macchina pubblica non era in grado di spendere perché si è deciso di non investirci ha riconsiderato il rischio Italia”. Nel frattempo è arrivata la dichiarazione di resa, con la scelta di “togliere 16 miliardi ai territori e darli a grandi stazioni appaltanti o sotto forma di crediti di imposta che hanno un impatto potenziale molto minore agli investimenti pubblici”.

Quella partita ormai è quasi persa, al netto del giudizio di Bruxelles che sarà influenzato da considerazioni politiche in vista delle elezioni europee. Ma secondo Piga non è troppo tardi per avviare la riforma delle stazioni appaltanti – le amministrazioni che affidano ai privati gli appalti per lavori o servizi – che auspica da una decina d’anni. Da quando ha toccato con mano – da presidente della Consip – i danni di gare troppo grandi e centralizzate ma anche delle piccole amministrazioni prive di competenze che moltiplicano gli sprechi. “Sulla base del nuovo Codice appalti hanno chiesto la qualificazione circa 3mila stazioni su 30mila: è un calo importante ma non basta, bisognerebbe scendere a 200. E soprattutto, quelle 3mila non hanno le risorse per assumere personale preparato facendo concorrenza al settore privato, cioè pagandolo molto bene“. Di quante persone si parla? “Un centinaio per ogni stazione. È un investimento che consentirebbe di abbattere gli sprechi e aumentare davvero gli investimenti pubblici, oltre a coinvolgere di più nelle gare le pmi con ricadute positive per tutta l’economia”.

A quel punto, immagina Piga, “avremmo anche un vantaggio politico negoziale: dopo aver dimostrato di saper spendere potremmo essere credibili nell’orientare il dibattito sul nuovo Patto di stabilità e nel chiedere alla Ue di poter fare investimenti in deficit. Il primo passo spetta a noi e deve passare per gli investimenti nella macchina amministrativa. La gara mondiale sulla competitività si disputa sulla qualità delle pubbliche amministrazioni, come hanno capito bene gli Usa, la Cina, la Germania e la Francia”. In attesa della manovra, con cui si deciderà su quali capitoli mettere risorse aggiuntive, i numeri della Nadef “a legislazione vigente” non promettono molto di buono: nel 2024 “il deficit/pil programmatico cala di un punto rispetto al valore 2023 e il surplus primario (differenza tra entrate e uscite al netto degli interessi sul debito ndr) aumenta di 1,3 punti. Significa 25 miliardi di maggiori entrate e minori uscite nette, soldi sottratti all’economia”.