Benjamin Netanyahu ha espresso “fiducia”, durante l’incontro col presidente degli Stati Uniti Joe Biden che si è tenuto il 20 settembre scorso a margine dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite a New York, nella possibilità di raggiungere un accordo “storico” mediato dagli Usa per stabilire relazioni diplomatiche formali con l’Arabia Saudita di Mohammad bin Salman. “Penso che una pace di questo tipo – spiega Netanyahu – farebbe molto per promuovere la fine del conflitto arabo-israeliano, raggiungere la riconciliazione tra il mondo islamico e lo Stato ebraico e promuovere una vera pace tra Israele e palestinesi. Questo è qualcosa alla nostra portata”. Nemmeno una settimana dopo l’incontro a New York, il 26 settembre il ministro israeliano del turismo, Haim Katz, si è recato in Arabia Saudita per una conferenza delle Nazioni Unite in quello che è a tutti gli effetti il primo viaggio pubblico in assoluto nel paese arabo da parte di un membro del governo israeliano. “Il turismo è un ponte tra le nazioni”, ha detto Katz, aggiungendo che lavorerà “per promuovere la cooperazione, il turismo e le relazioni estere di Israele”. Il giorno stesso Riad ha inviato la sua prima delegazione in trent’anni nella Cisgiordania occupata per rassicurare l’Autorità palestinese che difenderà la loro causa anche se stringerà legami più stretti con Israele. “La questione palestinese è un pilastro fondamentale”, ha detto Naif bin Bandar al-Sudairi, il nuovo ambasciatore presso i palestinesi, dopo aver incontrato l’alto diplomatico palestinese Riad al-Maliki a Ramallah per presentare le sue credenziali.

Che tipo di normalizzazione? – “Io leggerei la normalizzazione in due modi diversi, che sono anche un po’ opposti”, spiega a ilfattoquotidiano.it Piero Graglia, professore di Storia delle relazioni internazionali all’Università Statale di Milano. “Potrebbe essere che Israele stia cercando una sponda per isolare la Palestina facendo mostra di dialogare con alcuni paesi arabi che peraltro sì, sono a favore della creazione di uno Stato palestinese, ma nello stesso tempo non sono stati storicamente grandi supporter di questa posizione”. Oppure, l’altra ipotesi, come spiega il professore, è “che Netanyahu senta una pressione internazionale, o di una sorta di critica, della politica di Israele nei confronti dei territori occupati, e quindi cerchi di accumulare credibilità nei confronti della comunità internazionale. Io però credo che se Israele non cesserà quella politica di illegalità diffusa nei territori occupati che sta portando praticamente dagli accordi di Oslo in poi, non c’è atto di Tel Aviv che possa convincere sulla sua reale buona fede quando si parla della questione palestinese”. Quello che è sicuro, invece, è che Netanyahu non accetta il “veto” dei palestinesi sulla normalizzazione, come ha spiegato durante il suo discorso alle Nazioni Unite il 22 settembre scorso. “La pace tra Israele e Arabia Saudita creerà davvero un nuovo Medio Oriente”, ha affermato Netanyahu, mostrando alla platea una mappa in cui i territori palestinesi, così come le alture del Golan in Siria, parte di Israele. Un discorso accolto “molto positivamente” dal ministro di ultradestra sionista Itamar Ben Gvir che spiega, tramite una sua fonte al canale israeliano N12 News, che “se [Netanyahu] rimane in linea con il discorso, siamo completamente con lui”, spiegando che “non permetteremo la pace, in cambio della violazione della sovranità” di Israele.

La guerra (invisibile) in Medio Oriente tra Usa e Cina – Ciò che però appare chiaro fin da subito è la forte ansia degli Stati Uniti di Biden di spingere per un avvicinamento diplomatico tra Israele e Arabia Saudita. Una questione di “sicurezza nazionale”, come spiega il segretario di Stato Antony Blinken. Il nemico numero uno da contrastare è l’Iran (e indirettamente la Cina) che il 10 marzo scorso ha stretto un accordo, mediato proprio da Pechino, per il ripristino delle relazioni con Riad, dopo anni di rottura diplomatica tra i due paesi. Sembra quindi che gli Usa stiano adottando la loro solita realpolitik trattando gli affari del Medio Oriente, con l’amministrazione di Biden affamata di risultati concreti in politica estera in vista delle elezioni presidenziali del 2024. Da parte sua la Cina, negli ultimi mesi, sta cercando di mediare i conflitti e normalizzare i rapporti con tutti i paesi del Medio Oriente. Oltre al già citato riavvicinamento tra Teheran e Riad, Pechino ha anche accolto il 22 settembre scorso il controverso presidente siriano Bashar al-Assad spiegando che “sosterrà la reintegrazione della Siria” sul piano internazionale. Durante invece la visita del presidente dell’Autorità nazionale palestinese Mahmoud Abbas a Pechino lo scorso giugno, Xi Jinping si è subito offerto di mediare i colloqui di pace tra palestinesi e israeliani, e si prevede che la stessa offerta sarà fatta anche al premier israeliano Benjamin Netanyahu, che visiterà il Paese asiatico entro la fine dell’anno. L’Iran invece ha subito messo in guardia l’Arabia Saudita dal concludere qualsiasi accordo con Israele. In una conferenza stampa a New York, a margine dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, il presidente iraniano Ebrahim Raisi ha detto a Sky News che un simile accordo sarebbe una “pugnalata alle spalle al popolo palestinese e alla sua resistenza” spiegando che “la liberazione della città santa di Gerusalemme è al centro della convinzione di tutti i musulmani”.

Le condizioni di Riyadh e la posizione palestinese – L’Arabia Saudita ha subito spiegato che vuole un patto di difesa con gli Usa (che includa meno restrizioni sulla vendita di armi statunitensi) e assistenza nello sviluppo del proprio programma nucleare civile. Ha inoltre affermato che qualsiasi accordo richiederebbe grandi progressi verso la creazione di uno Stato palestinese, una condizione eventualmente complicata da accettare da parte del governo nazionalista più religioso e di estrema destra della storia di Israele. L’Arabia Saudita condiziona quindi la normalizzazione con Tel Aviv ai punti condivisi dall’Iniziativa di pace araba del 2002, che chiede ad Israele il suo ritiro dal territorio palestinese e dalle alture siriane del Golan. L’iniziativa prevede anche la creazione di uno Stato palestinese e la ricerca di una “soluzione equa” alla difficile situazione di milioni di rifugiati palestinesi e dei loro discendenti, la maggior parte dei quali vive in campi profughi nei paesi vicini. Nel tentativo di conquistarsi la fiducia dell’Autorità palestinese, l’Arabia Saudita si è poi offerta di riprendere il sostegno finanziario dopo che gli aiuti erano stati tagliati nel 2021. Secondo un’indiscrezione del Wall Street Journal, una delegazione di funzionari dell’Autorità palestinese ad agosto si è recata a Riad per fare pressione per ottenere una serie di condizioni in cambio dell’accettazione da parte dell’Arabia Saudita della normalizzazione dei legami con Israele. Le condizioni includono la riapertura del consolato americano nella Gerusalemme est occupata, che l’ex presidente Usa Donald Trump aveva chiuso nel 2019, oltre al sostegno statunitense per la piena rappresentanza palestinese presso le Nazioni Unite e la concessione israeliana ai palestinesi di un maggiore controllo su alcune parti della Cisgiordania occupata. Un atteggiamento molto diverso rispetto alle normalizzazioni di altri paesi arabi come Emirati Arabi Uniti o Bahrein. All’epoca l’Autorità palestinese aveva accusato gli Stati del Golfo di pugnalarla alle spalle, oggi invece si siede ai tavoli delle trattative. Ma se Ramallah accetta la normalizzazione, “chi soffre in modo anche abbastanza passivo l’intero iter sono i palestinesi”, conclude il professor Graglia, “che diventano praticamente moneta di scambio tra le potenze regionali e mondiali nelle loro trattative”.

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