La geopolitica è tornata ad essere la bussola dell’economia mondiale. Si fanno affari con i ‘paesi amici’, questa la regola d’oro del commercio internazionale. L’intervallo magico della globalizzazione, quando a guidare le decisioni economiche erano i fondamentali di economia – come dimenticare la delocalizzazione degli anni Novanta in Cina per inseguire salari più bassi che in occidente? – si è concluso. Risultato: la frammentazione dell’economia globale in blocchi concorrenziali e anche ostili. Ma ciò che sta accadendo a livello economico è solo il sintomo di una malattia politica che sta ridisegnando l’aspetto politico della globalizzazione: il multilateralismo.

C’è chi sostiene che siamo tornati agli anni Trenta, quando sulla scacchiera mondiale si intravedevano schieramenti destinati allo scontro armato che dettavano le alleanze economiche. In un certo senso è vero, molti infatti i punti di contatto tra le due ere. In primis l’erosione del multilateralismo e l’indebolimento delle istituzioni internazionali – basti menzionare le Nazioni Unite, l’Organizzazione mondiale del commercio e l’Organizzazione mondiale della sanità, tutte sotto stress a causa dell’unilateralismo, del protezionismo e del populismo.

In secondo luogo, il ritorno di regimi autoritari e movimenti populisti il cui scopo è mettere sotto scacco la democrazia, i diritti umani e il diritto attraverso lo sfruttamento di risentimenti sociali, diseguaglianze economiche e divisioni culturali.

In terzo luogo, l’intensificarsi di rivalità e conflitti geopolitici, ad esempio tra gli Stati Uniti e la Cina, nazioni che competono per la supremazia economica e per la leadership mondiale, rivalità che minacciano la stabilità e la sicurezza mondiale.

Infine, l’emergere di sfide e crisi globali inedite, ad esempio i cambiamenti climatici, la pandemia, gli attacchi cibernetici, il terrorismo e le grandi migrazioni. Fenomeni questi che richiedono azioni e cooperazione collettiva, ma che invece producono ulteriori tensioni e competitività.

La storia però non si ripete mai completamente: esistono tra gli anni Trenta e noi anche grosse differenze. L’arma nucleare e tutta la varietà di armi di distruzione di massa, una sorta di muta deterrenza che riduce il rischio di una terza guerra mondiale. Le interdipendenze economiche generate dalla globalizzazione tra regioni del mondo che non solo hanno prodotto scambi e dialoghi tra culture diverse, ma hanno anche creato realtà economiche transnazionali. L’innovazione tecnologica che offre soluzioni alternative a molti dei nuovi problemi del mondo e potenzia le capacità umane. L’importanza della società civile e dei movimenti sociali che promuovono la partecipazione diretta del popolo riguardo a temi importantissimi come i diritti umani, la protezione dell’ambiente, l’eguaglianza di genere e la giustizia sociale.

A giudicare dalla frammentazione dell’economia mondiale, però, gli elementi che rendono la nostra era diversa dagli anni Trenta non sono sufficienti a bloccare le spinte e le forze che promuovono l’avvento di un mondo multipolare, altamente concorrenziale e antagonista. Molti vedono nella guerra in Ucraina l’evento chiave del cambiamento in atto, altri attribuiscono all’elezione di Trump nel 2016 e al trumpismo l’inizio della fine del multilateralismo. Ma la prospettiva storica non può essere così breve: per capire cosa succede oggi e azzardare previsioni su cosa succederà domani ci vuole una visione di lunghissimo periodo, tutti sanno che i semi dei grandi cambiamenti ci mettono decenni a germogliare.

Un’interpretazione realista e proprio per questo poco gettonata è quella che vede nell’11 settembre l’inizio del declino del multilateralismo e l’avvento della frammentazione geopolitica ed economica. Paradossalmente, nel momento in cui il mondo faceva fronte compatto contro il terrorismo del fondamentalismo islamico, paesi come gli Stati Uniti e il Regno Unito si posizionavano per rilanciare vecchi primati storici, per ricreare antiche supremazie politico-economiche. Secondo questa chiave di lettura, il colpo mortale alle Nazioni Uniti è stato inferto dall’amministrazione Bush e dal governo Blair nel 2003, prima mentendo sull’arsenale nucleare di Saddam Hussein e poi entrando in guerra contro la volontà del consiglio di sicurezza.

Da allora i picconatori della globalizzazione quale sinonimo di multilateralismo si sono avvicendati al potere, mentre le critiche dei movimenti sociali e della società civile nei confronti della globalizzazione quale sinonimo di sfruttamento e oppressione del villaggio globale non hanno prodotto nessuna riflessione, figuriamoci qualche cambiamento. All’interno dei nuovi blocchi la natura rapace della globalizzazione è rimasta intatta, anzi si è consolidata alimentata dal populismo e dalla propaganda.

In questo mondo di blocchi in costante competizione la parola diplomazia ha perso significato ed è stata rimpiazzata dal desiderio di rivalsa, anche di vendetta mascherato con i panni della giustizia. In questa ottica vanno pesate le parole di Zelensky alle Nazioni Unite: anche per un paese sotto aggressione, il sentiero della pace non può passare attraverso la guerra totale, de facto auspicata dal leader ucraino; spogliare le Nazioni Unite della carta costitutiva al fine di espellere l’aggressore Russia dal consiglio di sicurezza darebbe il colpo di grazia a questa istituzione, senza tener conto che verrebbe interpretata dalla Russia come una dichiarazione di guerra contro Mosca da parte di quella fetta, considerevole, di mondo che appoggia la causa ucraina.

Nell’era dell’arma nucleare il sentiero della pace non può deviare da quello della diplomazia: forse è questa la differenza fondamentale rispetto agli anni Trenta.

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