Professor Marco Revelli, lo sciopero dei lavoratori dell’auto statunitense colpisce per diverse ragioni. Da un lato ci sono rivendicazioni salariali importanti, con richieste di aumenti del 40%, dall’altro la piattaforma di rivendicazione include anche richieste che riguardano la qualità della vita. Va detto che i lavoratori vengono da un lungo periodo di compressione retributiva a fronte di utili delle tre grandi case automobilistiche (Gm, Ford e Stellantis) che negli ultimi anni sono stati di circa 250 miliardi di dollari. I top manager hanno compensi di oltre 20 milioni di dollari, aumentati del 40% negli ultimi anni. Gli operai chiedono un’equiparazione. Ci sono quindi le premesse per avanzare richieste forti ma da tempo non si vedeva un’azione sindacale così decisa. Cosa ne pensa?

Ci sono senza dubbio elementi di novità ma è un nuovo che in qualche modo sa di antico. Di nuovo c’è una rottura della pace sociale che durava da tempo e questo sta accadendo in diversi settori, non solo in quello dell’auto. Ciò avviene nonostante la presidenza Biden sia in una qualche misura “amica” ma il mandato si avvia ormai a conclusione. Antico perché…riecco i metalmeccanici! Gli operai tornano al centro della scena e della lotta. Proprio mentre la Federal Reserve cerca in tutti i modi di comprimere le retribuzione per contrastare l’inflazione, ecco richieste che fanno saltare i pani. Ma oltre agli aumenti c’è la richiesta di ridurre del 30% l’orario. Tornano in mente gli slogan di una volta, “più salario e meno orario”. Si ripropone il conflitto di una volta, con tecniche anche piuttosto raffinate, una specie di sciopero a scacchiera che colpisce dove fa più male. Mi lasci dire che questa è in qualche modo anche una rivincita postuma dei lavoratori Chrysler sul modello Marchionne che ha cercato di imporre un pieno controllo della forza lavoro, come avviene negli stabilimenti italiani, usando mezzi leciti e non.

Le prime reazioni dei vertici aziendali sono parse stizzite. Ford ha avviato licenziamenti piuttosto arbitrari, la numero uno di Gm Mary Barra (stipendio di 30 milioni di dollari l’anno) si è lamentata in tv affermando che “non è il momento di fare scioperi”. È come se, abituati al periodo di pace sociale a cui lei accennava, questi manager si trovino impreparati a gestire un conflitto come se mancasse questa categoria mentale. Eppure è utile ricordare che, al di là dei danni economici di breve periodo, i conflitti di classe sono e sono sempre stati motori di sviluppo…

Assolutamente si. Da sempre gli scontri con i lavoratori sono una leva per l’innovazione e lo sviluppo del capitalismo che è un sistema che si nutre di rotture e conflitti. La lotta è qualcosa che ravviva la capacità imprenditoriale, almeno se non ci si è troppo adagiati nel vivere di rendite di posizione. Sinora questi conflitti sono stati schivati con vari metodi, su tutti le delocalizzazioni. Ora questi nuovi manager scoprono con stupore di essere dipendenti da un elemento che avevano percepito come inerme. I lavoratori erano stati considerati alla stregua di macchine e di robot, qualcosa di “morto” che invece adesso scoprono non solo essere vivo ma in grado di avanzare rivendicazioni per migliorare la propria esistenza, di affermarsi come soggetti e non come oggetti.

Pensa che questa mobilitazione possa propagarsi ad altri settori, ad altri paesi?

Penso che sia un sommovimento che non si richiuderà su se stesso, non negli Stati Uniti almeno. Il paese è in declino ma è ancora pieno di energie e in questi contesti certi tipi di processi tendono a circolare e diffondersi. Come dicevo un risveglio dell’attività di rivendicazione riguarda già anche altri settori e la sindacalizzazione è in crescita soprattutto tra i lavoratori più giovani. Per la Vecchia Europa il discorso è diverso. L’Europa è decotta, è stanca, così come lo sono i suoi sindacati tranne che in Germania dove, non per caso, l’Ig Metall ha avanzato richieste che assomigliano a quelle della UAW americane. In Italia l’encefalogramma dei sindacati è quasi piatto. I lavoratori più strutturati sono ormai anziani, molto anziani. Sono disillusi, pensano alla pensione. I giovani sono in condizioni precarie e quindi più ricattabili. Sono anche molto atomizzati, “dispersi”. Non affidano più il loro destino al lavoro e quindi viene meno l’incentivo ad impegnarsi in battaglie per migliorare condizioni e paghe. E fare un conflitto sciale con chi ha più di 30 anni è impossibile.

La storia insegna che gli scioperi che falliscono si pagano caro. Vede questo rischio negli Stati Uniti?

Se penso a scioperi che falliscono ricordo quello dei minatori inglesi contro il governo Thatcher o quello dei lavoratori Fiat del 1980. C’è una differenza fondamentale rispetto alla mobilitazione dei lavoratori americani. Quegli scioperi si svolgevano in una fase terminale di un settore, erano mobilitazioni di testimonianza, straordinari canti del cigno con la consapevolezza che questo sarebbero rimasti. Qui è diverso, la lotta si svolge all’alba e non al tramonto di una fase industriale. Forse non otterranno tutto quello che chiedono ma molto sì, in fondo le case automobilistiche hanno già accettato incrementi retributivi del 20%.

Sullo sfondo c’è il grande tema della transizione al motore elettrico su cui la Casa Bianca punta molto e per cui ha stanziato ingenti risorse…

È proprio questo il punto, all’orizzonte c’è una torta gigantesca che passerà anche da quegli stabilimenti che oggi sono in lotta. È in corso una battaglia anche in vista dell’arrivo di risorse senza precedenti. I sindacati lo sanno e rivendicano la loro parte.

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