Il 15 settembre 2008, Lehman Brothers, una delle più grandi banche d’affari degli Stati Uniti, dichiarava bancarotta, facendo deflagrare la più virulenta crisi finanziaria ed economica globale dalla Grande Depressione del 1929.

Lehman Brothers era stata fondata nel 1850 ed aveva acquisito un ruolo di primo piano tra le banche d’affari internazionali, anche se non le veniva riconosciuto il prestigio di cui godevano i veri titani di Wall Street come Goldman Sachs, JP Morgan o Morgan Stanley.

Lehman era esposta massicciamente in prodotti finanziari “innovativi”. In particolare quelli che vennero (ex post) definiti “titoli tossici”, vale a dire obbligazioni garantite da mutui subprime, cioè i mutui concessi a individui con redditi esigui o addirittura inesistenti.

Questi titoli erano considerati abbastanza sicuri (infatti godevano spesso del rating tripla A), perché il rischio era stato calcolato da imbecilli (o peggio) su dati che si riferivano a periodi storici in cui le banche mantenevano i mutui sui loro bilanci e quindi valutavano attentamente il rischio. Invece quando le banche cartolarizzavano i mutui trascuravano o ignoravano la capacità del contraente di ripagarli. Il rischio era scaricato sulle spalle di qualcun altro, in particolare assicurazioni e fondi pensione i cui “manager” e membri del Board avevano sentito vagamente parlare di risk management in qualche cocktail party di sfigati. In sostanza si fidavano della Tripla A e per il resto pensavano al golf.

Quindi quando i tassi di interesse dal 2007 iniziarono a salire e la bolla del settore immobiliare si sgonfiò, i prezzi degli immobili crollarono, molti debitori non furono in grado di pagare le rate dei mutui e gli immobili non valevano quanto il mutuo contratto per acquisirli. Di conseguenza i titoli tossici diventarono peggio della carta straccia perché nessuno era in grado di capire quanto valessero a causa della complessità e astrusità delle clausole legali su cui si basavano le cartolarizzazioni (e che nessuno aveva analizzato seriamente).

Il fallimento di Lehman Brothers ebbe un impatto devastante sull’economia mondiale. La banca aveva un’esposizione mostruosa (e inestricabile) a tutto il sistema finanziario, se paragonata al suo capitale di 50 miliardi di dollari. Il suo crollo provocò una crisi di fiducia nei mercati che subirono l’equivalente di un infarto. Il mercato monetario si bloccò e si scatenò una profonda recessione globale che durò per tutto il 2009. Da quello shock alcuni paesi (tra cui l’Italia) ancora non si sono completamente ripresi.

Le cause dell’implosione di Lehman Brothers sono state oggetto di infinite indagini e analisi in cui si tende ad enfatizzare che l’eccessiva esposizione della banca ai derivati (inclusi i titoli garantiti da mutui subprime) venne indotta innanzitutto dalla scarsa trasparenza e inefficace regolamentazione del sistema finanziario. In questo brodo di coltura l’avidità fece evaporare qualsiasi nozione di valutazione e gestione del rischio, sia a livello di singole istituzioni finanziarie, sia a livello aggregato.

Persino Alan Greenspan, il quale all’epoca era venerato in tutto il globo terracqueo quanto Osiride all’epoca delle piramidi, prese un granchio colossale: si convinse, senza uno straccio di evidenza, che i rischi finanziari erano stati efficientemente parcellizzati e allocati ai soggetti meglio posizionati per gestirli, senza mettere a rischio la stabilità complessiva del sistema. Insomma i guardiani della resilienza, i regolatori bancari e le varie autorità di vigilanza dormivano sereni mentre la concentrazione di rischi assumeva proporzioni mai sperimentate.

Ma tali analisi trascurano cause molto più profonde, che quasi nessuno ha individuato con lucidità. Il nocciolo duro della questione non è stato mai affrontato e pertanto i rimedi implementati sono stati quasi sempre inadeguati, dilettanteschi, superficiali o semplicistici.

L’eccezionale crescita economica degli anni ‘90 (peraltro in assenza di inflazione) era stata determinata da una serie di eventi unici ed irripetibili: la caduta del Muro di Berlino, l’esplosione di internet, la telefonia mobile, il lancio del WTO, il processo di convergenza alla moneta unica in Europa, le innovazioni nella finanza, lo sviluppo dei mercati emergenti, l’energia a basso prezzo, l’ingresso della Cina nel sistema economico capitalista eccetera.

Ci si aspettava che questa performance potesse prolungarsi all’infinito, invece dagli anni 2000 l’impulso si era arrestato, anzi dopo la bolla delle dot com aveva innestato la retromarcia. Invece di perseguire politiche di spinta all’innovazione (i cui frutti si producono col tempo e quindi non sono appetibili per i politici) i governi di tutti i paesi sviluppati si dedicarono all’attività che prediligono: rendere gravoso ogni progresso per proteggere interessi consolidati e parassitari, ma elettoralmente potenti e comprare i voti con prebende a pioggia. E quindi invece di un modello di sviluppo sostenuto dall’innovazione tecnologica, le politiche economiche (e monetarie) hanno favorito l’indebitamento sia del settore pubblico che di quello privato.

I debiti diffondono nella gente l’illusione del benessere fin quando non arriva il momento di ripagarli. Il botto di Lehman segnò uno di quei tragici momenti. Il prossimo arriverà quando si tratterà di ripagare il debito pubblico italiano con tassi di interesse sostanziosi e Pil stagnante. Oppure quando in Cina il governo non riuscirà a escogitare ulteriori trucchi per coprire i buchi delle autorità locali e delle imprese statali. O magari quando in America ci si accorgerà che il Green New Deal è stata una fornace di risorse.

Insomma gli inneschi della prossima crisi abbondano, perché i debiti hanno un’imprescindibile e tragica caratteristica: qualcuno li ripaga sempre. Esattamente chi, in che modo e in che proporzione dipende dai rapporti di forza nell’agone politico. O talora dalla potenza militare.

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