Non so dire se la conversione di Gaspare Spatuzza, killer al servizio dei Graviano, sia un miracolo di padre Puglisi, beatificato da papa Benedetto XVI nel 2012, ma di certo nella coscienza di Spatuzza quel sorriso gentile e quella frase, “Me lo aspettavo”, hanno scavato un solco profondo. In quel solco sta il senso della rivoluzione di padre Pino Puglisi, assassinato la sera del 15 settembre 1993 da Spatuzza e Salvatore Grigoli, che gli sparò un colpo alla nuca, mentre il complice inscenava una rapina.

A rileggere la deposizione di Spatuzza, che si è autoaccusato dell’omicidio di padre Puglisi, si trovano conferme basilari di cosa sia la mafia e anche di cosa significhi ancora oggi contrastarla con efficacia.

Dice Spatuzza: “Padre Puglisi voleva impossessarsi del nostro territorio (…) Era un sacerdote che andava per conto suo. E dava fastidio. Quella della sua eliminazione era una pratica aperta da almeno due anni. In piena campagna stragista nonostante avessimo sospeso le attività ordinarie, dovemmo occuparci di don Puglisi: questo per fare capire quanto dava fastidio. Un capomafia non poteva tollerare che un prete si muovesse per conto suo e doveva dimostrare chi comandava a Brancaccio».

Le conferme “basilari”: mafia è potere criminale che occupa un territorio (o un ambiente) e non tollera insubordinazioni. La Cosa Nostra a guida corleonese, mentre stava in “piena campagna stragista” per cercare di ri-mettersi il Paese nelle mani, non poteva rinunciare all’esercizio della violenza di “prossimità”, perché ciò avrebbe incrinato la propria maledetta reputazione sociale. Considerazioni che abbiamo già fatto per l’omicidio di Libero Grassi. Almeno nelle parole con cui Spatuzza evoca l’omicidio di padre Puglisi resta molto lontano il “gioco grande del potere”, tanto che il killer spiega che il piano prevedeva di far apparire l’esecuzione come l’esito di una rapina finita male, perché uccidere un sacerdote avrebbe fatto troppo rumore.

Spatuzza insomma non attribuisce all’omicidio significati simbolici più ampi, legati al rapporto tra mafia e Chiesa in Italia e in particolare al colpo d’immagine durissimo inferto da Papa Giovanni Paolo II che soltanto pochi mesi prima, parlando nella Valle dei Templi di Agrigento, dopo avere incontrato riservatamente i genitori del giudice Livatino (anch’egli beatificato nel 2021), adoperò parole inaudite per stigmatizzare la violenza mafiosa. Spatuzza nel suo racconto spiega la decisione di uccidere padre Puglisi facendo riferimento al “corpo a corpo” quotidiano e territoriale, che aveva come posta la “supremazia” culturale, prima ancora che militare ed economica. Questo per me resta il nucleo del conflitto tra mafie e Repubblica: la supremazia culturale, dalla quale discendono potere, impunità, ricchezze.

Padre Puglisi, trasferito nella parrocchia del quartiere Brancaccio a Palermo nel 1991, rappresentava con la propria testimonianza una alternativa credibile al modo mafioso di stare al mondo, faceva sì che, banalmente, i bambini e i ragazzi di Brancaccio, anziché avere soltanto il mito dello “zio mafioso”, scoprissero la bellezza di una vita vissuta nel rispetto e con fraternità. Come ci ha raccontato negli anni uno di quei ragazzini: Giuseppe Carini, diventato testimone di giustizia.

Nel “modo” sta la ragione del successo di padre Puglisi e lo si scopre riguardando una breve intervista video che si trova facilmente in rete, fattagli per la strada. Si nota che mentre viene intervistato alcuni bambini, come al solito incuriositi dalla telecamera, cominciano a saltellargli attorno, ebbene padre Puglisi non è per nulla infastidito, anzi li guarda con benevolenza, li indica al giornalista, dicendo: “Ecco, ce ne sono già alcuni qua, vede?”. Questo “modo” è il modo di Danilo Dolci, di don Milani, di Paulo Freire, è il modo dei maestri di strada di Napoli, come Cesare Moreno, di padre Alex Zanotelli: il modo di chi sceglie di stare “con” e di farlo con curiosità benevolente, sapendosi sciogliere in mezzo al contesto, senza perdere la propria identità (come fa il sale).

Questi adulti sono rivoluzionari e quindi pericolosi, perché come speleologi sanno calarsi in profondità d’animo altrimenti segrete, dove, sotto strati e strati di sedimenti culturali impastati di prepotenza, sta in attesa l’umano simpatico. Nulla a che vedere con gli adulti che parlano di “bonifica”, come se si trattasse di spazzare via delle blatte sporche e, appunto, fastidiose. Nulla a che vedere con chi si cala dall’alto di tanto in tanto, mostrando denti e muscoli come fari nella notte che impietriscono gli animali. Nulla a che vedere con chi minaccia manette e carcere a vita.

Soltanto la severità, che sappia coniugarsi con l’accoglienza, può generare cambiamento. La severità usata per fare paura non serve: questi ragazzi crescono alla scuola della paura, sanno come servirsene. Tanto più se la severità è figlia di una cultura segregazionista della società, come è nel caso della destra al governo, che dietro lo slogan dell’autonomia differenziata nasconde (sempre meno in verità) il progetto di una umanità differenziata. Ecco perché le maxi retate decise in queste settimane sono ipocrite e inutili. E la “stesa” di qualche notte fa a Caivano sta lì a dimostrarlo.

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