Forse non lo sanno neppure loro o la definizione è troppo ridondante, ma le piccole imprese rappresentano la massima espressione di un modello di learning organization: un’azienda che è in grado di adattarsi, innovandosi, a situazioni sempre diverse e in cambiamento. Nell’odierna società globalizzata e ipercompetitiva, in cui è aumentata la velocità con cui cambiano i gusti del consumatore (soggetto a continue sollecitazioni) e con cui le aziende sono costrette a innovare, sempre di più le piccole imprese, per avere successo nel lungo periodo, si orientano a migliorare costantemente e a inserire competenza e sensibilità estetica (arte e tecnologia) nei prodotti, nei processi produttivi, nell’approccio al mercato e nelle modalità di comunicazione e diversificazione rispetto alla concorrenza.

Non sempre ci riescono ma tentano continuamente. Il successo dipende dalla qualità dei cosiddetti knowledge worker, collaboratori capaci di mantenere molto alto sia il monitoraggio del mercato che il livello di innovazione. I “lavoratori della conoscenza”, termine utilizzato per la prima volta nel 1959 (!!) da Peter Drucker nel libro Landmarks of tomorrow, operano sui processi immateriali e impiegano diversi tipi di conoscenze per svolgere il proprio lavoro. Per questi lavoratori la conoscenza è il principale input e output dei processi lavorativi. Non producono scarpe, non sistemano i prodotti nello scaffale, non registrano le fatture e neppure controllano gli estratti conto delle banche.

Si tratta di professional, non stiamo parlando di geni, dotati di conoscenze teoriche medie (meglio ancora se strutturate e certificate), oltre che di discrete (non “consolidate e significative”) esperienze e competenze applicative: computer scientist, esperti di marketing, figure tecnico-commerciali ad alta qualificazione, ricercatori, ingegneri, esperti di finanza e controllo, esperti legali e tributari, consulenti interni, tecnici di progettazione, tecnici di prodotto, venditori qualificati, tecnici di assistenza cliente, programmatori, ecc.

Abbiamo avuto modo di osservare più volte come il valore aggiunto all’interno dei prodotti sia materiali che immateriali dipenda soprattutto dalla quantità di “intelligenza” in essi contenuta, circostanza che impedisce al prodotto stesso di trasformarsi in una “commodity”, che ne erode la profittabilità e porta l’azienda a sopravvivere esclusivamente in condizioni del più basso costo del lavoro possibile. In questo contesto la selezione e la preparazione dei collaboratori di talento diviene il fattore critico di successo dell’azienda, che deve quindi stimolare ogni occasione di crescita e di apprendimento delle proprie risorse offrendo loro occasioni di imparare e di crescere professionalmente.

Se il lavoro dell’azienda consiste in gran parte nel produrre innovazione, idee e soluzioni originali, chi gestisce l’impresa ha la necessità di sviluppare continuamente competenze per sostenere l’innovazione e la soluzione di problemi. Indirettamente si ottiene però un altro risultato: migliorando sempre più i propri collaboratori, se ne aumenta anche il valore su un mercato del lavoro che evidenzia, occorre dirlo, un livello di domanda superiore all’offerta. Da qui il paradosso: se sviluppi il potenziale dei tuoi collaboratori rischi che se ne vadano, se non ne sviluppi continuamente il potenziale non ti servono a nulla.

La soluzione?

Ipercompetizione e globalizzazione non ci danno alternative. Non potremo mai stancarci di procedere sulla strada dello sviluppo delle competenze a ogni grado e a ogni livello, accentuando le capacità di produrre continuamente due cose: risorse idonee a sostituire e rigenerare quelle esistenti e nuovi metodi e tecniche per rendere più complessa la riproducibilità del nostro modello di business. Se peraltro la perdita di importanti knowledge worker può comportare un grave danno all’impresa, vuol dire che le sue competenze sono facilmente riproducibili e che quindi deve paradossalmente impegnarsi maggiormente nello sviluppo e nella crescita professionale dei suoi collaboratori.

La scelta peggiore per l’azienda sarebbe quella di ripiegarsi su se stessa cercando di difendere i propri vantaggi competitivi che, in tempi sempre più rapidi, diventeranno meno significativi e finiranno presto per scomparire del tutto.

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