di Enrique Balbontin*

“Quando il Genoa già praticava il football gli altri si accorgevano di avere i piedi solo quando gli dolevano”. Gianni Brera, genio godereccio della penna che cito suo malgrado, con questa perla mi fornisce l’incipit ideale per un “homenaje” ai 130 anni del Grifone, il Vecchio Balordo, come lo battezzò lui, genoano doc.

Onde evitare imbarazzanti parallela, mi limito a sottoscrivere ogni sua parola, il Genoa è il padre (nonno) indiscusso del calcio italiano al quale diede i natali un giovedì di 130 anni fa. Nel 1893 il porto di Genova primeggiava nel commercio di carbone e merci varie. Le agenzie marittime inglesi, un po’ come le bagasce e i delinquenti, pullulavano nei malfamati caruggi dell’angiporto della Superba. In quell’anno Sir Alfred Payton, sportivo e fanatico di football, era il console di Sua Maestà britannica a Genova. In Inghilterra si giocava a calcio da oltre mezzo secolo ma in Italia questo sport non esisteva e Sir Alfred ne aveva una nostalgia canaglia. Così, dopo una giornata passata in porto tra le bestemmie dei camalli, la sera del 7 settembre 1893, con l’amico Charles De Grave Sells ed altri notabili inglesi, andò al Consolato britannico di Via Palestro dove, brindando con generose dosi di whisky, intinse il pennino nello scotch doppio malto e vergò di suo pugno lo statuto della prima squadra di calcio italiana, il Genoa, Genova in inglese.

Da quel giorno sono passati 130 anni e il Vecchio Balordo, dopo avere vinto 9 scudetti nei primi 35 anni di vita, ne ha passate di cotte e di crude attraversando 26 lustri di epilettici up and down, con una parabola che dai gloriosi fasti iniziali porta ad una nobile decadenza cronica. Talmente cronica da generare nei suoi aficionados una viscerale passione per la squadra a prescindere dai risultati sportivi, spesso più che deludenti. Una nuova frontiera del masochismo, un comportamento che ha incuriosito molti psichiatri. Incomprensibile ai più, all’enigma è stata data una risposta con una domanda del compianto Pippo Spagnolo, storico capo-popolo della Gradinata Nord: “Sei genoano e vuoi anche vincere?”.

La cosiddetta “genoanità” è un concetto borderline, difficile da spiegare ai profani del disagio mentale ma può risultare meno ostico facendo ricorso alla mitologia classica greca, in particolare con la trasposizione in chiave rossoblù del mito di Sisifo. Il macigno che il genoano, novello Sisifo, deve “camallare” in cima alla montagna e che, una volta portato in vetta con enormi sforzi, puntualmente rotola a valle costringendolo a ricominciare da capo, rappresenta il suo destino. Un destino disumano, ma solo in apparenza. Il genoano infatti, trovando la sua assurda “joie de vivre” proprio nel “camallare” il macigno, in realtà è felice come una pasqua con il suo bel masso sul groppone. E’ il Sisifo di Camus 2.0, un eterno camallo insospettabilmente felice che oggi però posa il masso e brinda come Payton e De Grave Sells 130 anni fa.

E allora champagne sulle tette per il Vecchio Balordo!

*Enrique Balbontin (Genova 1968), di padre spagnolo e madre genovese, è un comico, cabarettista e conduttore televisivo, celebre per le sue lezioni di dialetto savonese

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