Quando parliamo di foresta pluviale in Amazzonia pensiamo a qualcosa di molto esotico e non a un polmone della nostra Terra, perché se un nostro polmone venisse attaccato avremmo già chiamato il nostro medico di base o saremmo in corsia al pronto soccorso. Eppure il nostro polmone terreste sta perdendo la sua capacità di assorbire carbonio e la foresta pluviale si sta trasformando, anno dopo anno, in savana.

Le aziende che producono senza sosta e il consumismo sono la vera causa di una produzione eccessiva di CO2 e contribuiscono alla deforestazione, compromettendo la salubrità dei suoli e delle acque. Dentro al nostro sistema di produzione e consumo sono gli allevamenti e le attività agricole a produrre le principali “emissioni di gas serra […] deforestazione e perdita di biodiversità” nonché ad essere i grandi consumatori “di acqua dolce”. (dal rapporto al Club di Roma – Earth4all – Una Terra per tutti – Il più autorevole progetto internazionale per il nostro futuro a cura di Sandrine Dixson-Decléve, Owen Gaffney, Jayati Ghosh, Jorgen Randers, Johan Rockstrom, Per Espen Stoknes.)

Concentriamoci allora per un attimo sull’impatto della produzione alimentare, osservando che questa attività è responsabile del 70% di tutti i prelievi di acqua e dell’aumento delle zone morte nelle acque marine o interne a causa dell’uso eccessivo di fertilizzanti. Qui non stiamo parlando del soddisfacimento dei bisogni di base della popolazione mondiale, non stiamo parlando di rispondere al grave problema della fame nel mondo.

Come ho sottolineato nel libro Ritorno al 2050: Verso una Terra Giusta, La Fao (agenzia specializzata delle Nazioni Unite che si occupa di cibo e agricoltura) ha stabilito, già dieci anni fa, che la fame nel mondo è un problema di accesso alle terre e alle risorse ittiche, di ridistribuzione, di diritti di proprietà alle comunità indigene. Sebbene tutte le nazioni siano state sollecitate a produrre direttive in tal senso, le richieste e gli allarmi della Fao restano a prendere polvere nei cassetti con conseguenze per le devastazioni ambientali e deforestazioni che dipendono dalle monocolture, dallo spreco, dal junk food e dagli allevamenti intensivi. È una causa diretta del consumismo e della nostra società ed economia orientata al profitto, capace solo di creare contemporaneamente obesità e fame su vastissima scala.

Il report Ending hunger: what would it cost? del 2016 stima che le risorse necessarie a sradicare completamente la fame nel mondo, obiettivo due dell’agenda dello Sviluppo Sostenibile 2030 dell’Onu, siano pari a 11 miliardi in più all’anno rispetto a quelli già spesi. Stiamo parlando di appena lo 0,01% di quanto si spende in pubblicità. Basterebbe una tassa di scopo globale, europea o nazionale sulla pubblicità che non solo ci permetterebbe di avere le risorse, ma rallenterebbe le cause delle devastazioni ambientali e delle disuguaglianze.

Per invertire la rotta e curare i nostri polmoni, quelli della Terra, bisogna aiutare le aziende agricole che oggi sono in minoranza (una su tre) a diventare maggioranza diffondendo le proprie pratiche di sostenibilità e rigenerazione: scegliere sementi e varietà locali, promuovere alimenti salutari a bassa impronta di carbonio, attivare la lotta integrata ai parassiti, promuovere la biodiversità come in Italia fanno i presidi di Slow Food e tante iniziative nate dal basso, ridurre l’agricoltura e l’allevamento a vantaggio dell’agroforestazione, gestire in modo sostenibile l’irrigazione, suddividere la superficie coltivata in piccoli appezzamenti di colture diverse. Ad oggi solo un decimo di tutti i terreni agricoli nel mondo stanno scegliendo questa trasformazione epocale. Noi possiamo dargli una spinta.

Se vince l’idea del bene comune anche gli agricoltori della nostra città e di tante città italiane o i proprietari di terre incolte o di terre vicine e dentro ai parchi nazionali possano scegliere di unirsi a questa rivoluzione e scegliere di offrire le loro terra a una rigenerazione dei beni comuni. Una riconversione delle loro politiche agricole può far nascere nei nostri territori piccole foreste, orti urbani e parchi didattici , dando vita a veri e propri laboratori di cultura della transizione ecologica.

I cittadini più consapevoli della necessità di agire a rigenerare il nostro pianeta sono quelli che vivono più vicini a ecosistemi vitali, ancora non piegati all’urbanizzazione e industrializzazione selvaggia, vale per abitanti dell’Indonesia e delle foreste pluviali del Brasile, come per chi vive in un villaggio costiero, o nelle vicinanze di parchi nazionali, foreste o centri di biodiversità. Siamo noi i protagonisti di questa rivoluzione.

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