L’hanno violentata in sette, l’hanno stuprata a turno e hanno ripreso tutto con il cellulare mentre lei li supplicava di smetterla e si lamentava per il dolore. Poi l’hanno lasciata lì, accasciata a terra in mezzo alla strada e sono andati a mangiare tutti insieme allegramente in una rosticceria. Durante gli interrogatori di garanzia davanti al gip hanno cercato di scaricare la responsabilità di quello che è uno dei più gravi reati contro la persona su di lei, dicendo che era consenziente e li aveva provocati. Ma in questo, come in altri casi di violenza sessuale, ad incastrare i carnefici ci sono dei video e delle intercettazioni che lasciano ben pochi dubbi sull’orrore consumato lo scorso 7 luglio a Palermo.

Proprio come nel caso Alberto Genovese, è un video finito nelle mani degli inquirenti a documentare la violenza ai danni di una ragazza che si trovava in uno stato di minorata difesa e anche in questo caso gli aggressori hanno cercato di dipingere come attenuante il fatto che la vittima avesse assunto alcool, un elemento che in realtà costituisce un aggravante. Ed è proprio dal video o da alcuni frammenti girati da uno degli aggressori che si evidenzia la crudeltà, l’intenzionalità, la determinazione e la piena consapevolezza del fatto che i sette giovani stessero compiendo una violenza di gruppo. I ragazzi, che hanno tra i 18 e i 22 anni, si trovano in stato di fermo, mentre per uno di loro, che all’epoca dei fatti era ancora minorenne e ha da poco raggiunto la maggiore età, il gip ha disposto la scarcerazione e l’affidamento ad una comunità.

La motivazione addotta dal gip è la “resipiscenza” dell’indagato, ovvero la consapevolezza del proprio errore seguita da ravvedimento, motivazione sulla quale sorgono parecchi dubbi, tanto che la Procura di Palermo, con la procuratrice per i minorenni Claudia Caramanna, ha deciso di opporsi al provvedimento. Ma forse la persona che più di tutti meriterebbe una spiegazione circa il termine resipiscenza è proprio la vittima, dato che sembra davvero difficile cogliere pentimento e ravvedimento nel comportamento del più giovane dei suoi aggressori che i pm, dopo aver visionato il video, hanno definito come uno dei più violenti. Ed è ancora più difficile parlare di pentimento e ravvedimento se si leggono le parole che gli aggressori si sono scambiati in chat dopo la violenza di gruppo. “Eravamo cento cani sopra una gatta, una cosa di questa l’avevo vista solo nei video porno, eravamo troppi, sinceramente mi sono schifato un po’, ma che dovevo fare? La carne è carne, glielo ho abbagnato pure io il discorso” è solo la punta dell’iceberg di una serie di messaggi agghiaccianti da cui emerge il totale disprezzo per la vittima, considerata una preda sulla quale infierire ad oltranza per dimostrare la propria onnipotenza.

Una vittima continuamente colpevolizzata perché definita una poco di buono, una vittima verso cui c’era la piena e ferma intenzione di commettere uno stupro di gruppo dopo averle fatto assumere una gran quantità di alcool incitando il barista: ”Falla ubriacare, poi ci pensiamo noi” e soprattutto una vittima che non doveva permettersi alcun rifiuto, ribellione, autodeterminazione, pena la vendetta per aver avuto l’ardire di sporgere denuncia: ”Ti giuro, stasera mi giro tutta la via Libertà e mi porto la denuncia nella borsetta… le dico guarda che cosa mi hai fatto e poi le do una testata nel naso… le chiudo le narici con una testata”.

La pena prevista per il reato di violenza sessuale di gruppo va dagli 8 ai 14 anni di carcere e la sua piena applicazione senza sconti agli autori di questo crimine sarebbe l’unica risposta che la vittima meriterebbe, dato che purtroppo non è possibile tornare indietro nel tempo, prima di quel 7 luglio. Ora i sette ragazzi accusati di stupro di gruppo piangono davanti agli inquirenti e uno di loro dice: ”Mi sono rovinato la vita”, come se l’unico senso di pietà che li attraversa fosse per se stessi e non per una ragazza di 19 anni che, dopo aver ricevuto le cure mediche per l’orrore subito, dovrà passare il resto della vita a cercare di guarire dalle ferite dell’anima.

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