Le dichiarazioni che affollano emittenti e quotidiani ogni qual volta, soprattutto ad agosto e forse per la concomitante assenza di ulteriori argomenti d’interesse, i tristi eventi penitenziari diventano degni di attenzione mediatica, portano alla mente almeno due domande: “perché sul carcere si affermano da anni, sempre, le stesse cose?” e anche “perché chi parla di carcere più degli altri è assai spesso chi, politici compresi, il carcere lo conosce poco o niente?”.

Le risposte, a partire dal fatto che le emergenze penitenziarie non sono prerogativa dell’eccessiva calura estiva ma accadono giorno dopo giorno, mese dopo mese, ogni anno con crescente drammaticità, riguardano la consapevolezza che di carcere, persino negli addetti ai lavori e addirittura in chi è lautamente retribuito per occuparsene, si tratta malvolentieri e, quindi, latitano idee e progetti tali da rendere fattiva l’obbligata permanenza di decine di migliaia di soggetti in spazi angusti e fatiscenti.

Eppure la Giustizia, si proclama ed è scritto ovunque, è amministrata in nome del popolo che rispetto al carcere vanta un credito e non un debito (il sistema penitenziario assorbe più di un terzo del bilancio del Ministero della Giustizia) nei confronti di chi ha commesso un crimine in danno della collettività soprattutto nei territori in cui la criminalità è fenomeno endemico.

Il Guardasigilli Carlo Nordio, già presidente della commissione per la riforma del codice penale, in luogo di proposte datate e già nel tempo illusorie quanto fallimentari, dovrebbe disporre per la rivalutazione della funzione della pena alleggerendo le spese dei contribuenti che, ad esempio, nella riconversione delle caserme in carceri leggere, sarebbero costretti ad ulteriori aggravi per nulla giustificati dagli improbabili risultati futuri.

Urge, quindi, il coraggio di un cambiamento effettivo, laddove i rigurgiti punitivi sono sempre naufragati in un carcere – oggi più di ieri, anche sui social con triste ostentazione, ‘scuola di criminalità’.

Le maggiori e irrisolte criticità del sistema penitenziario, oltre al mantenimento in essere di condizioni di vivibilità inaccettabili per l’utenza e per il personale riguardano, infatti, l’impossibilità di realizzare attraverso il carcere la funzione risocializzante della pena (ex art.27 della Costituzione) e la conseguente giustizia riparativa in favore delle vittime del reato e dell’intera società civile che, invece, paga il costante prezzo dell’inefficienza e delle disfunzioni.

Rispetto ad una funzione quasi esclusivamente contenitiva (come se i reclusi non dovessero mai accedere alla libertà) e che produce solo sopraffazione e violenze, per i sottovalutati problemi interni della promiscuità-sovraffollamento, della tossicodipendenza e della malattia mentale, oltre che per le interessate ingerenze della criminalità organizzata, occorrono iniziative concrete a partire dall’individuazione di una nuova classe dirigente, estranea alle inefficienti logiche dell’appartenenza agli schieramenti, che sia in grado di confrontarsi con le sfide della modernità e con i problemi dei territori su cui le carceri gravano.

Immediate possibilità a cui nessuno guarda si riferiscono ad un più proficuo utilizzo esterno della pena e della Polizia penitenziaria che, benché Forza di Polizia a tutti gli effetti, viene colpevolmente relegata a funzioni meramente custodiali (apertura e chiusura delle celle) e che potrebbe impiegarsi per il controllo dei condannati in attività che ne consentano il riscatto con i cittadini che vantano a causa dei reati un vero e proprio ‘credito di cittadinanza’, per una infinita gamma di interventi: dai servizi di tutela del decoro urbano all’impiego quali netturbini itineranti o manutentori stradali, dall’assistenza ad anziani e inabili alla custodia dei parchi pubblici, oppure volontari in canili e gattili, etc..

In tal modo il passaggio dal carcere alla società libera sarebbe intermediato da un graduale e reale reinserimento a beneficio del debito con la giustizia e del connesso credito della Società civile.

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