Con Michela Murgia se n’è andata non solo una grande scrittrice, ma una straordinaria intellettuale civile che, attraverso interventi pubblici veicolati con un uso sapiente degli strumenti di comunicazione, dai libri ai canali social, ha operato una accurata decostruzione dei sistemi di violenza nei quali siamo invischiati, a cominciare da quello del patriarcato, attraverso un’accurata analisi della violenza insita nelle parole. Mai sottraendosi alla responsabilità consegnatale dal suo ruolo pubblico, anche sfidando le convezioni, fino a mettere in discussione – e fino alla fine – l’impianto culturale che legittima anche l’altra faccia del sistema patriarcale, il sistema militare. Senza sottrarsi ai conseguenti attacchi sguaiati che questo le ha provocato. Ne faccio qui alcuni esempi, usando le sue parole, prima che ne sia rimossa la memoria.

E’ accaduto durante la pandemia da Covid-19, quando Michela Murgia ha messo pubblicamente in discussione la narrazione bellica che ne ha costituito il fondamentale paradigma interpretativo e generativo. In particolare durante la trasmissione televisiva DiMartedì del 6 aprile 2021 nel corso della quale, a precisa domanda del giornalista Floris, ha risposto di temere la scelta incongruente di nominare un generale al ruolo di commissario straordinario per affrontare la pandemia. Di fronte “al tiro alla Murgia” scatenatosi sui media in seguito a queste affermazioni, l’autrice ne ha svolto, il giorno dopo, una precisa argomentazione sui propri canali social.

“Nominare un militare a fare il commissario dell’emergenza Covid – ha scritto Michela Murgia il 7 aprile su Facebook – significa inserire la pandemia in una cornice semantica di ‘guerra’. So che per molti è una cornice adatta, perché il virus ci è stato raccontato come ‘il nemico’ e il modo di affrontarlo è stato descritto come ‘una trincea’. Io non condivido questo impianto metaforico, perché sottintende che il genere umano stia dichiarando guerra a un elemento di natura, cioè al sistema interagente di cui noi stessi facciamo parte”. Continua Murgia: “Della retorica di guerra fa parte la convinzione che tutto finirà, che ‘vinceremo il virus’ e potremo tornare alla vita ‘pacifica’ di prima. La retorica di guerra è comoda: non cambia i nostri comportamenti e ci consente di pensare che l’esplosione della pandemia sia indipendente dai nostri stili di vita. Ci convince che siamo vittime innocenti, poveri ignari che siamo stati attaccati da una specie nemica. Quella della guerra è una narrazione falsa. Il virus non è un nemico a cui spezzeremo le reni, ma un organismo con cui dovremmo imparare a convivere ripensando i nostri comportamenti. Prima dismettiamo la retorica della trincea, prima acquisiamo quella del cambiamento. Ma sono metafore, mi si dirà. E’ guerra per modo di dire. Certo, ma a forza di ripetere metafore di guerra, non è strano se poi a condurre la lotta contro la pandemia viene nominato un generale. Siamo l’unico paese europeo ad aver messo un militare a gestire la campagna vaccinale”.

La retorica bellica, come molti hanno evidenziato, radicalizzata a partire dalla pandemia non ha più lasciato la narrazione pubblica della realtà trasformandosi, senza soluzione di continuità, nella cifra del racconto bellicista del conflitto tra Russia ed Ucraina, polarizzato e banalizzato fino al corollario delle liste di prescrizione dei “pacifisti-putiniani” sui media italiani. Michela Murgia si è sottratta intenzionalmente a questa retorica anche nella lucida e drammatica intervista al Corriere della sera del 6 maggio del 2023, nella quale ha annunciato, insieme all’uscita dell’ultimo libro “Tre ciotole”, il proprio tumore al quarto stadio ribadendo di volersi sottrarre nel parlarne, nel libro come nell’intervista, alla semplificazione del registro bellico spesso usato nella ‘guerra al cancro’.

“La guerra presuppone sconfitti e vincitori – dice Murgia ad Aldo Cazzullo – io conosco già la fine della storia, ma non mi sento una perdente. La guerra vera è quella in Ucraina. Non posso avere Putin e Zelensky dentro di me”.

Poche settimane dopo, qualora non ancora fosse sufficientemente chiaro il suo punto di vista e nonostante il progredire della malattia, dichiara – in un video affidato a Instagram, diventato in poco tempo virale – a proposito della parata militare del 2 giugno, che ancora una volta esalta il bellicismo della nazione, il proprio antimilitarismo: “Io sono antimilitarista, non è un mistero. Non vuol dire che odio i militari, ma che sono cittadina di uno Stato che nella sua Costituzione ripudia esplicitamente la guerra. C’è scritto lì. Se davvero crediamo che quella sia la Costituzione più bella del mondo dovremmo essere tutti e tutte antimilitaristi. Trovo privo di logica celebrare la nascita di una democrazia mostrando l’apparato bellico perché è quello che fanno le dittature. Il 2 giugno è la festa di tutti i cittadini e cittadine e sarebbe bello se un paese civile e in pace facesse sfilare le espressioni della sua migliore vita democratica. Una parata aperta dagli artisti e le artiste italiane, seguiti da personale medico, insegnanti, contribuenti, giornalisti. In cielo volerebbero gli aquiloni”.

In cielo volerebbero gli aquiloni, invece dei cacciabombardieri. E forse questo accadrà davvero, se continuiamo con persuasione e determinazione a svolgere l’impegno che ci consegna anche Michela Murgia, volto a smantellare la legittimazione della guerra e degli strumenti che la rendono possibile, cominciando con la decolonizzazione dell’immaginario di guerra che la rende un implicito culturale da non mettere in discussione. A partire – come ci ha insegnato questa straordinaria intellettuale civile – dalla depurazione del linguaggio bellico che costruisce e modella i pensieri.

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