di Edoardo Frasso

Mi ci sono voluti giorni per metabolizzare parzialmente la morte di Sinéad O’Connor e probabilmente mi ci vorrà molto più tempo di quanto immagino per riuscire a farlo del tutto. Da un certo punto di vista è tutto giusto: Sinéad apparteneva molto più all’aldilà che all’aldiqua, ed era solo temporaneamente prestata a questo mondo. Era una Dea, una cometa, una banshee. Non ce la meritavamo e lei non meritava tutta la sofferenza con cui ha dovuto convivere.

Ogni appassionato degli U2, come me, è legato a Sinéad per tanti motivi diversi. C’è un racconto stupendo che la riguarda. Nel 1993 Gavid Friday, Maurice Seezer e Bono sono al lavoro sulla colonna sonora di Nel Nome Del Padre di Jim Sheridan, che sarebbe uscito l’anno dopo. Tra i vari pezzi in lavorazione c’è anche You Made Me The Thief of Your Heart, una canzone straordinaria che tutti desiderano affidare a Sinéad. Non è solo una questione di voce. L’anno prima ha fatto quella cosa in America con la foto del Papa, il film parla della società irlandese dilaniata dal terrorismo del conflitto cattolico/protestante e non c’è artista che meglio di lei incarni in quel momento storico tutta la tensione sul tema religioso.

Viene invitata dunque per registrare la sua voce una sera agli STS Studios di Dublino, un piccolo studio di registrazione nel bel mezzo di Temple Bar, sopra al negozio di dischi della Claddagh Records. Un posto abbastanza assurdo, ci sono stato una volta e credo esista ancora.

Comunque, quella sera c’è tutta la compagnia e con loro c’è pure il giornalista Bill Flanagan, che è la fonte principale dell’aneddoto. Lui arriva in serata e trova tutti sui minuscoli scalini dello studio stanchissimi e con i nervi a fior di pelle. Quella session è fondamentale: la lavorazione della colonna sonora è in ritardo e mancano pochi giorni alla consegna. Ma c’è un problema: Sinéad è di sopra, ha imposto di illuminare il piccolo studio solo con candele accese, ha con sé un vaso pieno di fiori e parla esclusivamente con una bambola che si è portata, con un tono calmo e spiritato. Sta facendo così da ore, non sta cantando, nessuno sa più che cazzo fare. È in una specie di procedura preparatoria meditativa che lascia tutti inquietati e sbigottiti. Ad un’ora imprecisata qualcuno le propone di nuovo di cantare. “Ma sì” fa lei. Una roba tipo Mariano Giusti. Si mette davanti al microfono e porta avanti l’estenuate session fino alle 2.30 di notte. La sua interpretazione è meravigliosa e lascia attoniti tutti quanti.

Finita la session e ottenuta la registrazione per la canzone, Sinéad cancella tutta la patina di assurdità e si comporta normalmente: il gruppetto se ne va in centro a mangiare delle patatine fritte.

La lettura che Flanagan dà all’episodio è molto acuta. Alla base del suo comportamento c’è, consciamente o inconsciamente, un’esigenza assolutamente funzionale legata alle dinamiche di potere. Sinéad è l’unica donna in una stanza con diversi uomini il cui ego potrebbe riempire una città intera, uno di loro è in quel momento la più famosa rockstar sulla faccia della terra. Non ha nessuna intenzione di rischiare di farsi controllare viziando la propria arte, non vuole che la musica da lei sprigionata possa essere veicolata da qualcuno. Qualche altra popstar farebbe le bizze viziose, lei no: si trasforma in una strega, possiede lo spazio che abita, domina prima di essere dominata, inquieta tutti e poi sferra il suo colpo magico.

Sinéad non era solo una cantante superlativa, era anche una grande autrice. Sembrava che la attraversassero tutte le epoche. In questa Troy al Pinkpop festival del 1988 ha 22 anni, è rasata, in maglietta e pantaloncini come una hipster del 2023. Canta una storia metaforica tratteggiata intorno ad un poema di Yeats, in cui Dublino e un generico passato omerico sono in uno strano stesso universo. Si divora il palco come una leonessa arrabbiata e al tempo stesso ha una misteriosa paura negli occhi. Comincia con “I remember it”, io me lo ricordo. E ti sembra assolutamente plausibile in effetti che chi possiede quella voce possa ricordare sul serio un passato mitologico, chimerico, perché è esattamente da lì che sembra provenire.

Sinead era un’artista che ha vissuto dentro ad un paradosso temporale. Veniva da cent’anni indietro e stava cent’anni avanti. Un’epoca sola per lei era troppo poco.

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