L’energia idroelettrica è una delle principali fonti italiane di energia rinnovabile. E molti impianti si trovano nell’area alpina, dove accumulo e scioglimento della neve e del ghiaccio sono fattori chiave. Poiché le Alpi meridionali stanno sperimentando la progressiva mutazione del regime delle precipitazioni, questo fenomeno ha un impatto non trascurabile sulla sicurezza energetica del paese. Questa tendenza non è nuova: lo sappiamo da quasi 40 anni (Burlando, P., Rossi, G. & R. Rosso, L’impatto del cambiamento climatico sul ciclo idrologico e le sue conseguenze su risorse idriche ed estremi idrologici, Ingegneria Ambientale, 20, 5: 252-285, 1991).

Molti anni fa, il centro di ricerche dell’Enel — allora un’azienda pubblica che operava in regime di monopolio, seconda solo alla corrispondente azienda dell’Unione Sovietica — mi aveva affidato una serie di ricerche sulla sensibilità climatica degli impianti idroelettrici. All’epoca, queste attività erano considerate perlomeno visionarie se non bizzarre; quando non venivano bollate come vaneggianti dall’assoluta maggioranza dei miei colleghi. E devo ammettere che, godendo della libertà accademica delle università di quei bei tempi, potevo dedicare un quinto del mio corso annuale al potenziale impatto climatico sulle “infrastrutture idrauliche”, come titolava appunto quel corso. E senza subire rampogne dall’empireo accademico. Era un corso frequentato da trecento e più studenti.

Questi studi, condotti tra il 1989 e il 1994, erano stati focalizzati su un sistema idroelettrico alpino molto importante e, nel contempo, sensibile a potenziali fluttuazioni climatiche per la sua collocazione geografica: il sistema del Noce in Trentino (Figura 1).

In particolare, fu condotto uno zoom sul bacino del Caresèr, immediatamente a valle dell’omonimo ghiacciaio (Figura 2).

Per volontà di un altro visionario, Ardito Desio, nel 1957 era stata installata lassù una stazione di misura pluvio-nivo-meteorologica a fine risoluzione. Tenuta in piena efficienza da Enel, essa forniva dati in alta quota (Malga Mare a 2.600 metri sul livello del medio mare). Una rartà a livello mondiale, all’epoca. Queste misure consentivano un’accettabile validazione del modello matematico, costruito per legare le variabili meteo a quelle idrauliche: l’afflusso alla diga e la sua distribuzione lungo il corso dell’anno. Gli scenari climatici in ingresso al modello, poi, erano affatto rudimentali: le prime uscite del modello climatico di prima generazione dell’Istituto Meteorologico del Regno Unito.

L’impatto del cambiamento climatico sulla regolazione degli impianti idroelettrici era apparso subito evidente (Figura 3). Anche se la disponibilità idrica annuale non si rilevava particolarmente sensibile al cambiamento del clima, la sua distribuzione lungo il corso dell’anno si sarebbe modificata non poco. La malinconica, prevista sorte del ghiacciaio giocava poi un ruolo notevole. Quando fu costruita la diga, la Vedretta del Caresèr si estendeva per 720 ettari, occupando il 70 percento del bacino. All’inizio degli anni ’80, si era ritirata fino a occupare solo 480 ettari. Il transitorio climatico prometteva bene! Elevare il coronamento della diga del Caresèr poteva essere una buona idea e fu anche presa in esame: lo scioglimento avrebbe garantito un surplus per un lungo transitorio. Allora, il conto economico non era però altrettanto vantaggioso quanto lo sarebbe ai giorni nostri.

Oggi la Vedretta del Caresèr copre a malapena 130 ettari.

Dopo trent’anni, ho partecipato con curiosità al ritorno al futuro nello stesso territorio. Si tratta di uno studio promosso dai miei giovani colleghi (compreso qualche diversamente giovane) sul bacino del fiume Noce, dove il fiume è stato sbarrato a Santa Giustina, invasando il più grande serbatoio idroelettrico del Trentino con una capacità di 172 milioni di metri cubi. A valle di altri impianti minori, questa diga alimenta la centrale di Taio che produce circa 282 Gigawattora all’anno. Non entro qui nel dettaglio dello studio, in cui abbiamo usato un modello matematico a fine risoluzione del ciclo dell’acqua, compreso il ciclo della neve negli ultimi 30 anni, immagini satellitari e dati storici di bilancio idrico del serbatoio artificiale, scenari climatici allo stato dell’arte dalla sesta edizione del Rapporto IPCC. Niente di più, niente di meno che un arsenale allo stato dell’arte.

Con questa variegata e aggiornata scatola degli attrezzi, gli scenari futuri non evidenziano rilevanti variazioni di disponibilità totale dell’acqua. Se le diverse traiettorie non indicano alcuna univoca variazione significativa della quantità totale dell’acqua disponibile, la riduzione delle nevicate ridurrà l’afflusso al lago durante la primavera e l’estate, aumentando sensibilmente il deflusso di base invernale (v. Figura 4). E l’analisi degli scenari di produzione energetica suggerisce qualche modifica all’attuale gestione degli impianti, la cui funzione è appunto rendere più stabile la naturale instabilità degli apporti fluviali nel corso del tempo.

Per affrontare la volatilità nella produzione energetica, soprattutto nella prospettiva di accrescere il contributo delle fonti rinnovabili, sarebbe opportuno installare sistemi idraulici di accumulo di energia. Come ho scritto più volte in questo blog, i cicli di accumulo e pompaggio garantiscono la più efficiente e potente “batteria” di accumulo dell’energia, sia che venga prodotta a intermittenza dal sole e dal vento, sia che venga fornita con troppa costanza dalle centrali termiche e nucleari. Per esempio, un impianto di pompaggio potrebbe essere implementato nel Lago Mollaro, un serbatoio minore collegato alla centrale di Taio, per immagazzinare l’energia in eccesso da fonti rinnovabili nel Lago di Santa Giustina.

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