Nei romanzi d’appendice dell’Ottocento rapidi arricchimenti spesso celavano crimini abietti. Nella realtà dei nostri giorni l’impetuoso sviluppo della Cina, passata da endemiche e devastanti carestie al vertice dell’economia globale, deriva dal Furto del Millennio, descritto nel mio libro dall’omonimo titolo.

Tuttavia non si è trattato di un misfatto abilmente occultato: anzi è stato compiuto alla luce del sole, sistematicamente, sotto gli occhi inebetiti delle vittime. Per la precisione si è trattato di una serie di colpi e di azioni criminose sempre più audaci, messe a segno dal complesso militare-industriale di Pechino: sottrazioni di tecnologia, frodi, spionaggio, hacking, dumping, ricatti, estorsioni, violazioni di brevetti e proprietà intellettuale, guerra ibrida attraverso la manipolazione dell’opinione pubblica, corruzione di politici ai massimi livelli.

E’ stato possibile compiere il Furto del Millennio nel corso di almeno tre decenni perché le élite politiche dei paesi avanzati si erano convinte che lo sviluppo economico di una nazione procedesse inevitabilmente in simbiosi con l’attecchimento della democrazia e l’adozione dei valori di libertà e del metodo democratico per scegliere i governanti, come era avvenuto in Giappone dopo la Seconda Guerra Mondiale o in Corea del Sud dopo la guerra civile. E persino a Taiwan dopo la morte di Chiang Kai-shek.

Ma la Cina è diversa. Per oltre due millenni era stata la potenza dominante e l’economia maggiore del pianeta, fino alla Rivoluzione Industriale. Cioè fino a quando l’Europa compì il balzo tecnologico che la catapultò al dominio nel mondo. Il periodo dal 1839 al 1949 (anno della vittoria di Mao nella guerra civile) in Cina è ricordato come il Secolo dell’Umiliazione, durante il quale l’Impero di Mezzo venne sconfitto militarmente, costretto a mortificanti concessioni commerciali e in parte colonizzato da europei e giapponesi.

La Cina comunista era determinata a vendicare quelle onte e a riconquistare il ruolo di potenza egemonica mondiale. Per cogliere questo obiettivo, la leadership di Pachino da Deng in poi sapeva quanto fosse cruciale colmare rapidamente il gap tecnologico con i paesi avanzati. Ma l’arretrato sistema cinese non sarebbe mai stato in grado di sviluppare tecnologie innovative. Al massimo poteva copiarle. Per questo il Partito Comunista Cinese nei decenni ha organizzato una rete fittissima di spionaggio, corruttela e hackeraggio a danno di multinazionali, joint venture, istituzioni, università e laboratori di ricerca in tutto il mondo.

Queste operazioni hanno coinvolto migliaia di agenti, pirati informatici e traditori. Gli esiti hanno consentito alla Cina di assurgere al ruolo di manifattura del mondo e primeggiare in alcune delle tecnologie di punta del XXI secolo: intelligenza artificiale, veicoli elettrici, treni superveloci, energie rinnovabili, reti 5G. I piani economici lanciati dal Partito Comunista Cinese, soprattutto da quando nel 2012 è assurto al vertice il neo-maoista Xi Jinping, mirano ad estendere questi progressi nella robotica, nella biomedicina, nell’aerospazio, nei nanomateriali e nell’hi-tech in generale.

Il valore del bottino ai danni delle sole aziende ed istituzioni americane viene valutato dall’FBI in 600 miliardi di dollari all’anno. Se si aggiungono le operazioni contro il resto del mondo, in particolare Europa, Giappone, Australia, Corea, Canada eccetera, è facile ipotizzare che si arrivi a circa un trilione di dollari. Per fornire un termine di paragone il programma Next Generation EU (da cui dipende il nostro Pnrr) stanzia 750 miliardi di euro in 5 anni. Ma si tratta di fondi presi a prestito che bisognerà ripagare con gli interessi, al contrario della refurtiva che i cinesi hanno accumulato senza scrupoli.

Fortunatamente, da alcuni anni l’ipnotica indulgenza degli Usa e dell’Occidente è evaporata. La Cina viene oggi trattata a Washington come una minaccia esistenziale. L’avvento alla Casa Bianca di Trump ha determinato il drastico ribaltamento dell’atteggiamento verso il regime di Pechino. E’ partita prima una intensa guerra commerciale a colpi di dazi (come non se ne vedevano da decenni), poi le frizioni si sono estese alla sfera militare nel Pacifico, soprattutto intorno a Taiwan, che Pechino considera una provincia ribelle da riconquistare se necessario con una guerra. L’avvento di Biden ha intensificato il contrasto con il regime comunista soprattutto dopo che l’invasione dell’Ucraina ha dimostrato a tutto il mondo libero che le autocrazie dotate di armi nucleari vanno contrastate e non blandite.

Da ottobre il Dipartimento del Commercio Usa ha vietato l’esportazione di chip di ultima generazione verso la Cina in modo da infliggere un duro colpo sia all’industria che all’esercito della superpotenza rivale. E finalmente anche l’Europa, in particolare la Germania, hanno di recente deciso di ridurre la dipendenza economica dalla Cina forgiando una nuova strategia che in pratica punta a sganciarsi quanto più è possibile dall’abbraccio mortale dell’Impero di Mezzo. Probabilmente non basterà la diplomazia a contenere l’aggressività della superpotenza emergente. Soprattutto se Xi Jinping decidesse di invadere Taiwan. Per questo anche la Nato ha esteso di fatto il suo mandato ben oltre il Nord Atlantico: Giappone e Corea hanno partecipato al vertice di Vilnius della Nato, preludio ad una futura intesa in caso di conflitto nel Pacifico.

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