Per diventare leggenda ogni storia ha bisogno di un innesco, di un episodio fortuito capace di stravolgere la trama e reindirizzarla una volta per tutte. È stato così anche per Gianluigi Buffon detto Gigi, il ragazzino che aveva stupito la Serie A per la precocità del suo talento e che ha finito per fare della longevità una delle sue caratteristiche salienti. Almeno fino a ieri, quando il Superman con il numero 1 stampato sul mantello ha deciso di riporre il costume in naftalina. Niente più voli. Niente più uscite col cuore in gola. Niente più miracoli. Perché a quarantacinque anni suonati l’eterno Peter Pan non ne poteva più di affrontare un Capitan Uncino diverso ogni settimana. Meglio dirsi addio, dunque. Meglio chiudere quella carriera che aveva regalato al pallone tricolore la sua ultima età dell’oro. Perché l’immagine di Buffon che si sfila i guanti una volta per tutte si porta dietro un significato profondo, qualcosa che va oltre l’idea ingenua del saluto all’ultimo campione del Mondo ancora in attività. Vuol dire separarsi dall’ultimo talento formato maxi prodotto da un movimento calcistico in tremenda difficoltà, dall’icona di una grandeur che forse non tornerà più, dall’unico campione (insieme ad Alessandro Del Piero) che pur vestendo la maglia del club più divisivo dello Stivale è diventato patrimonio condiviso. Ma l’addio al calcio di Buffon dopo 28 anni di carriera significa anche costringere i tifosi a fare i conti con il proprio invecchiamento, con l’idea che gli eroi dello sport saranno pure tutti giovani e belli ma che, prima o poi, anche loro dovranno andare in pensione ed essere sostituiti.

Il suo plot twist Gigi lo ha vissuto durante una delle notti magiche dell’estate del 1990. Fino a quel momento era stato un ragazzino di 12 anni che giocava come centrocampista davanti alla difesa. Spegneva la manovra avversaria, cercava corridoi liberi, spediva il pallone in avanti. Eppure guardando una partita del Camerun scopre che quella vita da mediano gli va incredibilmente stretta. La bassa risoluzione del tubo catodico proietta nel salotto dei suoi genitori le mirabolanti imprese di Thomas N’Kono. L’estremo difensore si tuffa e para, ma soprattutto si esibisce in alcune respinte di pugno che per la scuola italiana sembravano una bestemmia urlata in una chiesa. Ed è lì che Gigi modella la sua estetica calcistica. Quei gesti così particolari nascondono una bellezza più suadente dei dribbling di Maradona, delle giocate delicate come il velluto di Roberto Baggio, dei gol di Schillaci. Il ragazzino è così ipnotizzato che decide di provare. Giocherà in porta, per un anno. Poi se le cose andranno male tornerà a battagliare nella terra di mezzo. Non ce ne sarà bisogno. Il suo arretramento è una rivelazione. In un gioco in cui il gol viene percepito come un orgasmo collettivo, Gigi si scopre estremamente bravo nello strozzare le grida di gioia nella gola degli avversari. È una missione a cui si dedica con una costanza fuori dal comune. Settimana dopo settimana. Partita dopo partita. Tanto che prima ancora di iniziare a brillare la sua stella ha già offuscato quelle altrui.

A Parma lo capiscono in una serata di novembre del 1995. Dopo aver perso per 3-0 in Svezia, la squadra di Nevio Scala si gioca l’accesso ai quarti di finale di Coppa delle Coppe. Al Tardini tutti si aspettano un match durissimo. Solo che in realtà non c’è partita. I ducali si impongono per 4-0. L’avversario è polverizzato, il pericolo passato. Solo che a pochi minuti dalla fine Luca Bucci va a sbattere contro Couto e Vougt. Per un poco prova anche a restare in campo, solo che il dolore alla spalla è troppo forte. Bucci ha 25 anni e un futuro radioso davanti. Ma ancora non sa che dovrà cercarlo altrove. Al suo posto entra Nista, il portiere di riserva che vanta un credito enorme nei confronti della sorte. È stato fermo ai box per un anno per colpa della pulizia di una cicatrice che gli era stata lasciata in eredità da un’ernia del disco. “Spero che la sorte cambi” dice ai giornalisti dopo il match. Il suo interregno dura appena 90 minuti. Giusto il tempo della sfida contro la Cremonese in campionato. Poi basta. Il 19 novembre il Parma affronta il Milan di Capello. E fra i pali c’è un ragazzino di 17 anni e 10 mesi. “Gioca Buffon” aveva detto al gruppo la mattina, in modo da risparmiare a Gigi una notte insonne. Il risultato è straordinario. Nel vero senso del termine. Il ragazzino para tutto. Tanto da meritarsi i complimenti di Sebastiano Rossi. A fine partite in molti non credono ancora ai propri occhi. Fabio Capello si avvicina ai giornalisti e dice: “È stato il migliore del Parma. Avremmo meritato di vincere e se non ci siamo riusciti è perché abbiamo trovato in porta Buffon”. E pensare che cinque anni prima il ragazzo sembrava destinato proprio al Diavolo. “Poi scelsi Parma perché ora magari giocherei allo Spezia – dice nella sua prima intervista – e poi perché mi faceva meno paura. Ma non ho un carattere timoroso. Vediamo, se sbaglio contro la Juve mi ammazzano”. La guerra di successione a Bucci è finita senza neanche iniziare. “Scala ha per Nista la stessa fiducia che si potrebbe riporre in una Duna usata” malignano i giornalisti. Gigi gioca anche contro Juventus, Napoli, Lazio, Bari e Vicenza. Poi però a gennaio le gerarchie vengono rispristinate. Bucci torna titolare. Buffon torna in Primavera. “L’anno prossimo voglio giocare – dice il ragazzo – o qui o altrove”. È solo questione di tempo. Nella stagione successiva arriva il passaggio di consegne definitivo. Bucci scala in panchina, Gigi è il nuovo titolare. “A volte penso a come sarebbe stata la mia carriera se dietro di me non avessi avuto Buffon” dirà anni più tardi Bucci.

È l’inizio di una parabola incredibile. Gigi è un portiere stravagante, un campione che non scava un solco con chi lo incita sugli spalti. Fino a prendere anche qualche manganellata. “È una storia che risale a una ventina di anni fa – ha raccontato nel 2019 a Vanity Fair – Dopo una partita diedi un passaggio a un tifoso del Parma. Al casello c’era un posto di blocco della polizia. Appena vide le luci blu, lui si dileguò. A confronto con loro rimasi solo io. Oggi, ovviamente, non commetterei più quelle leggerezze, ma riconosco ancora quel ragazzo capace di slanci di solidarietà nei confronti di un amico. Anche di un amico che sbaglia”. Nel 1999 il Parma di Malesani vince la Coppa Uefa. È l’ultima italiana a riuscirci. Ed è anche l’unico trofeo internazionale vinto da Buffon con un club. Nel 2001 la Juventus lo acquista per 75 miliardi più Bachini, valutato altri 30. Un prezzo tutto sommato accettabile per l’uomo che deve aiutare la Signora a vincere quella benedetta (o maledetta) Coppa dei Campioni. È un traguardo che diventa ossessione. Perché gli sfugge sempre dalle mani. In bianconero Buffon diventa una specie di Willy il Coyote destinato a non acchiappare mai il suo Beep Beep. Gioca tre finali di Champions. E le perde tutte e tre. Nel 2003 contro il Milan. Nel 2015 contro il Barcellona. Nel 2017 contro il Real Madrid. La prima è la più dolorosa. Perché Gigi diventa protagonista suo malgrado, entrando nella storia dalla porta sbagliata. L’ultimo fotogramma della partita vede Shevchenko sul dischetto. È avvolto nella maglia bianca del Milan e annuisce all’arbitro che fischia. Buffon è sulla linea di porta. Con la sua casacca nera e rosa. Con quella porta così grande da difendere da un pallone così piccolo che sembra potersi infilare ovunque. Alla fine il portierone si lancia alla sua destra. Solo che la sfera vola esattamente nella direzione opposta. Gigi resta sull’erba verde a osservare la festa altrui.

Con la Juventus Buffon fa diventare il miracolo accessorio di serie, roba da catena di montaggio. Si specializza nell’arte dell’accumulo: dieci scudetti, sei Supercoppe, cinque Coppe Italia. Sempre da protagonista, sempre con interventi determinanti. Ed è qui che viene risucchiato in un paradosso, almeno in apparenza. Gigi è il simbolo della Juventus opulenta che cannibalizza il campionato, ma anche di quella frugale e operaia che espia i suoi peccati nel purgatorio della Serie B. Una carriera intera passata a evitare la figura del portiere di Umberto Saba, quello “caduto alla difesa ultima vana” che “contro terra cela la faccia, a non veder l’amara luce” per affinare uno stile personale. C’è un filo conduttore che attraversa tutta la sua vita. Ed è la granitica volontà di separare la narrazione di Buffon il campione, il portiere straordinario salito sul tetto del mondo, da quella di Gigi, il ragazzo che rivendica il suo diritto a sentirsi fragile, a sbagliare, ad affrontare gli stessi problemi dei suoi coetanei. E forse è per questo che Buffon è riuscito a parlare della depressione come nessuno aveva mai fatto prima. Nel 2000 aveva dovuto saltare l’Europeo a causa di un infortunio. Quattro anni più tardi, qualche mese prima del suo primo campionato continentale da protagonista, qualcosa sembrava essersi rotto dentro di lui.

“Per qualche mese, ogni cosa perse di senso. Mi pareva che agli altri non interessassi io, ma solo il campione che incarnavo – ha raccontato a Vanity Fair – Che tutti chiedessero di Buffon e nessuno di Gigi. Fu un momento complicatissimo. Avevo 25 anni, cavalcavo l’onda del successo e della notorietà. Un giorno, a pochi minuti da una partita di campionato mi avvicinai a Ivano Bordon, l’allenatore dei portieri, e gli dissi: ‘Ivano, fai scaldare Chimenti, di giocare io non me la sento’. Avevo avuto un attacco di panico. Non ero in grado di sostenere la gara”. E ancora durante le Invasioni Barbariche: “Lui si scaldò, io lo guardavo e capii che avrei creato un precedente dannoso. Sono andato in campo, anche questo mi è servito”. Per uscirne si è rivolto a uno psicologo. E ha cercato degli hobby. “Un giorno ero ‘matto’ – ha raccontato in una sua frase indimenticabile – e sono andato tre volte a vedere la mostra di Chagall‘. Euro 2004 è stata la svolta della sua vita. Il suo debutto contro la Danimarca un nuovo battesimo. “Avevo paura di fallire – ha raccontato a Rivista 11 – Grazie al talento e alla fortuna ho disputato una buona partita. E ho svoltato. Ricordo lo choc e le emozioni procurate da alcune parate importanti. Al fischio finale, per la prima volta in 5-6 mesi, non ho più sentito tremori alle gambe: stavo ritrovando la forza che mi aveva sempre accompagnato. Era come se fossi nato di nuovo. La partita finì 0-0, erano tutti arrabbiati tranne me, che avvertivo di aver probabilmente superato un momento difficile“. Una rinascita che ha trovato il suo momento più alto ai Mondiali del 2006. L’Italia diventa campione del Mondo. Anche grazie alla parata di Buffon su Zidane. Un intervento che il portierone azzurro ricorderà come “il più importante” della sua carriera. Una storia infinita dove i ritorni hanno giocato un ruolo fondamentale. Dopo l’esperienza al PSG Buffon è tornato a casa. Due volte. Prima alla Juve. Poi al Parma. Fino a ieri, fino a quando non ha detto deciso di dire basta, di sfilarsi il costume da supereroe. Solo che insieme a lui se ne va un pezzetto di tutti quelli che hanno amato il calcio negli ultimi trent’anni.

Articolo Precedente

Mondiali di calcio femminile, Italia battuta dal Sudafrica: è fuori. Azzurre beffate da un gol nel recupero

next
Articolo Successivo

Serie B, il Tar Lazio cambia tutto: Lecco e Brescia ammesse, Perugia e Reggina vanno in C. Per ora

next