La triste parabola di Sinead O’Connor ha come sfondo un antica e pesante depressione, quel male oscuro che ne ha minato l’esistenza testimoniata da quella drammatica intervista – appello nella quale descriveva il suo stato di buio crescente. La sua vicenda illustra bene come le fondamenta strutturali di una depressione maggiore, cioè non legata ad episodi della quotidianità, si posino sin dall’infanzia.

Famiglia frammentata, lacerata. Madre violenta, bambina oggetto di maltrattamenti, come tanti melanconici la cantante ha descritto la situazione di oggetto precario che tanti pazienti condividono. Come ho più volte scritto, il melanconico patisce un antico fuori scena, un fuori squadra come dato costitutivo. Il depresso grave non è stato introdotto alla vita, non ha trovato forti mani che ne abbiano circoscritto e protetto il posto, obbligandolo in tal modo ad occupare una posizione permanente di oggetto suscettibile di caduta, di defenestrazione, portatore di una provvisorietà radicale. Questa è la condizione che tanti depressi gravi cercano di neutralizzare nel corso della vita, incentrata pertanto alla ricerca infinita di un posto, di una stabilizzazione dell’essere. Nel momento in cui il legame sociale si sfilaccia e il posto diventa incerto, o un elemento che fungeva da ancoraggio alla vita svanisce (l’anno scorso ha perso un figlio), il melanconico è irrimediabilmente risucchiato verso atti suicidari in quanto privo di precedenti punti di ancoraggio alla vita.

Sinead O Connor, nel suo travagliato incedere, aveva trovato un equilibrio nella conversione alla fede islamica, seppur per poco tempo. La religione, la ricerca di un assoluto, è per individui di questo tipo un formidabile elemento di tenuta. Chi ne è privo crede che l’uomo contenga in sé la capacità di sopportare ogni peso che il tempo gli riserva, senza dover chiedere aiuto o sostegno a qualcosa che non sia razionalmente spiegabile. L’impossibile appello a un’entità trascendente li priva del sostegno di chi invece, perso tutto nella vita terrena, può poggiare su basi ‘terapeutiche’ quali: “Se dovessi camminare in una valle oscura, non temerei alcun male, perché tu sei con me. Il tuo bastone mi dà sicurezza”.

Un anno fa l’evento che, probabilmente, ha fatto sì che il buco nero inghiottisse gli spiragli di luce che lei aveva, tenacemente, fatto filtrare: la tragica morte del figlio. La perdita di un figlio è un evento catastrofico per chiunque e, sovente, tanti individui che depressi non sono mai stati, attraversano le pene dell’inferno per elaborare tale lutto. Lei lo aveva eletto ad oggetto di amore assoluto: “Era l’unico ad amarmi”, e questa perdita ha probabilmente determinato l’ingresso in quella situazione di pietrificazione dell’essere che contrassegna la depressione nella sua forma più cupa e disumanizzante. David Foster Wallace la chiamava la ‘Cosa Brutta’ “particolarmente brava ad aggredire i vostri meccanismi difensivi. Vi serve la mente per farlo, vi servono le cellule cerebrali e i loro bravi atomi (…) ed è proprio quello che la Cosa Brutta ha fatto ammalare. (..) . La Cosa Brutta siete voi. La malattia vi ‘definisce’, specie dopo che è passato qualche tempo. Con la morte del figlio probabilmente nella vita della cantante ogni legame residuo si è dissolto, venendo meno amici, familiari, portandola a ‘ sbattere il muso contro il vetro della campana rendendosi conto di essere in trappola”.

Quando, nella suddetta intervista, ella dice che le restava solo il suo psichiatra, sottolinea la delicatissima posizione che un clinico e tutto l’apparato medico devono deve sapere mantenere, solidamente, quando si segue un paziente che sta uscendo dalla depressione e ne attraversa i flutti. Essere presenti con la voce, i farmaci, con la stabilità è fondamentale. Ne capii l’importanza allorquando, in procinto di entrare in uno stato depressivo forte causato anche da un rapporto terapeutico deragliato, la persona che si era detto abile a seguirmi si dimostrò inadatta a quel ruolo e – spaventato dalle conseguenze possibili del male oscuro – mi mise cinicamente alla porta. E’ attraversando quel baratro che ho appreso da quale posizione di responsabilità un clinico non può mai chiamarsi fuori.

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