Come è stato questo quadriennio della Confindustria a guida Carlo Bonomi? La sua gestione ha portato a qualcosa di significativo nella politica industriale italiana oppure ci si è limitati a gestire, pur in circostanze drammatiche come quelle della pandemia prima e del conflitto armato poi, l’esistente guardando solo ai propri interessi corporativi? Quest’ultima sembra essere la valutazione più plausibile.

Per esempio, recentemente interrogato sul problema del salario minimo per legge, Bonomi ha dichiarato che il problema non riguarda il settore industriale, cioè il suo, perché nella manifattura è ampiamente al di sopra della ventilata cifra dei 9 euro lordi all’ora, parafrasi dell’italianismo e orami sdoganato “me ne frego”. Giudizio peraltro valido solo per metà. Infatti se i salari da sfruttamento li troviamo nei settori dei servizi, una domanda sorge spontanea. Chi usa questi servizi, come ad esempio la logistica? Per la maggior parte l’impresa, sia pubblica (ahimè) che privata, e quindi la questione riguarda direttamente anche il settore manifatturiero. Evidentemente all’industria fa piacere comprare a costi da dumping sociale determinati servizi fondamentali. Infatti, tutto ciò che comprime i costi aumenta i profitti. Un’angusta visione del proprio interesse particolaristico, insomma.

Eppure, riferendosi alla finanziaria 2023, Bonomi volava alto e aveva dichiarato che la proposta governativa era carente perché mancava di una visione. Corretto, la melonieconomics è la continuazione dell’approccio di Draghi corretto in senso pesantemente populista. Ma uno potrebbe legittimamente chiedersi quale fossero le proposte alternative di politica industriale della ditta Bonomi & Confindustria. Qui troviamo veramente poco e quel poco è sempre il solito con una grande novità in tempo di inflazione. Il poco deriva dal fatto che è stata archiviata la mitica politica dell’industria 4.0 o più, di cui si sono perse le tracce. In Italia l’innovazione tecnologica guidata dal pubblico può attendere, anche perché c’è poco di made in Italy. Che poi a ben guardare, più che su di una visione strategica di quali settori economici incentivare, alla Biden sui semiconduttori, per capirci, con investimenti per centinaia di miliardi, era basata sostanzialmente sugli sconti fiscali del super-ammortamento. Quindi più che altro un intervento di tipo ragionieristico a largo spettro.

Con lo tsunami dell’epidemia e della guerra, Confindustria è tornata a chiedere le provvidenze assistenziali di sempre. Ecco allora che i governi hanno destinato ingenti risorse per abbattere i costi energetici delle imprese, per non farle andare fuori mercato. E in effetti non ci sono andate. Terminata, almeno così pare, la sfuriata dei prezzi delle materie prime le imprese non hanno risposto simmetricamente alla legittima esigenza di socializzare gli extra-profitti generati dall’inflazione. Non solo il contributo del gettito della tassa sugli extra-profitti è stato modesto ma, al contrario, le imprese stanno approfittando della situazione di calma piatta dei salari per incrementare in maniera predatoria, secondo l’Ocse, i profitti. Su questa ben documentata inflazione da profitti Confindustria avrebbe dovuto dire qualcosa, almeno per far finta di smorzare l’incendio provocato dai suoi consociati.

Invece Confindustria ha salutato molto piacevolmente la contingenza attuale che gonfia i ricavi ma lascia inalterati i salari. Su questo punto le singole imprese si sono mosse secondo la loro buona volontà, dispensando bonus una tantum, la famosa contrattazione qualificata a cui pensa in maniera del tutto illusoria la ministra del lavoro. È mancata la voce autorevole di Confindustria che indicasse al mondo delle imprese un’univoca via da seguire. In realtà, l’unico provvedimento di politica industriale a gran voce sollecitato è stato quello della fiscalizzazione degli oneri sociali.

Un tempo, quando le esportazioni non volavano come ora, gli industriali chiedevano la riduzione degli oneri sociali per abbassare il costo globale del lavoro e rendere le nostre merci più competitive. Ora questo argomento non regge più perché in Europa tra i paesi a Pil elevato siamo quelli a costo del lavoro più basso. Però evidentemente vale la pena di battere la stessa strada e si chiede una riduzione dei contributi sociali, stavolta per aumentare il salario netto del lavoratore. Intenzionale lodevole e di tipo operaista. Solo che c’è un problema: in questo modo gli imprenditori fanno i samaritani generosi con i soldi pubblici. È chiaro infatti che l’idea di fondo sia quella che questa quota di salario sociale vada a sostituire i legittimi incrementi salariali che i lavoratori dovrebbero chiedere ai datori di lavoro. Quest’anno una parte non secondaria della manovra a debito della premier è andata a ridurre questi contributi, senza tener conto che ormai il 20% della spesa previdenziale è finanziata direttamente dallo Stato e dunque dalla fiscalità generale.

In definitiva il bilancio della stagione Bonomi non potrebbe che essere più positivo dalle parti degli imprenditori: sussidi ampiamente ricevuti, salario reale dei lavoratori aumentato a carico della finanza pubblica, profitti da rendita speculativa alle stelle.

Da questo punto di vista l’italico capitalismo targato Bonomi ha raggiunto la sua missione: spillare quanto più possibile risorse allo Stato in forme sempre nuove, dai tradizionali contributi diretti alla nuovissima fiscalizzazione degli oneri sociali. Insomma, sono stati gestiti al meglio i propri interessi corporativi, ora ancora di più con un governo, a parole amico dell’impresa, in realtà amico dei potenti. Oggi si va alla grande, almeno come imprenditori, sfruttando il vento in poppa dell’inflazione, con prezzi a volte veramente folli, e i salari bassi e fermi.

La svolta tecnologica, ma anche ecologica, non è per ora nel mirino delle imprese italiane. Vedremo se sarà ancora questa la modestissima linea di politica industriale seguita anche dal prossimo presidente di Confindustria, incrementare in ogni forma possibile i profitti di oggi, a spese dei salari e del bilancio pubblico. Un carpe diem sicuramente conveniente ma probabilmente illusorio, e comunque stavolta sì senza una visione strategica.

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