Se non fosse per la vivacità della società israeliana, ed in particolare del sempre più rumoroso – ma non necessariamente più solido – spettro di opposizioni al primo ministro Benjamin Netanyahu, è probabile che la riforma della giustizia promossa da quest’ultimo nel tentativo pratico di sfuggire a condanne per appropriazione indebita, corruzione e truffa, ed in quello più generale di “cambiare faccia” ad Israele, sarebbe già realtà da mesi. Mesi nei quali invece le proteste di piazza in diverse città israeliane, gli appelli di Joe Biden sul rallentamento o l’inversione di marcia di questo processo, ma soprattutto l’inedita presa di posizione di un centinaio di funzionari di sicurezza e di diecimila riservisti (di cui più di mille piloti) dell’Esercito – normalmente neutrali sulle questioni politiche, o più volentieri filo-governativi – hanno spinto il governo più a destra della storia di Israele a rimandare il progetto di legge, cercando un compromesso con le opposizioni servendosi della mediazione del presidente della Repubblica Isaac Herzog.

Una mediazione fallita, cassata in ultima istanza dalle parole di odierne di Yair Lapid – “impossibile raggiungere un accordo che preservi la democrazia con questo governo” – e dall’annuncio di boicottaggio del voto alla Knesset da parte di 56 deputati oppositori del governo, dopo il quale si è andati al voto che ha prodotto le conseguenze attese: 64 voti a favore su 120 (tra cui anche quello dell’inizialmente scettico Yoav Gallant, ministro della Difesa) e zero contro. A margine del voto, Arnon Bar-David, capo del più importante sindacato dei lavoratori israeliani, Histadrut, ha annunciato di non poter escludere un imminente sciopero generale.

Per certi versi, questa riforma e le sue premesse ricordano dei momenti dell’Italia berlusconiana, perlomeno dal lato del governo stesso: se gli oppositori hanno sempre posto il tema delicatissimo della tenuta democratica del paese, dello Stato di diritto e di quei fondamentali “checks and balances” – ed in sostanza sono queste le preoccupazioni espresse dallo stesso ex presidente della Corte Suprema, Aharon Barak -, Netanyahu ha bollato i tentativi di ostacolare la riforma come un tentativo di golpe, frutto dell’incapacità di una parte del paese di accettare l’esito delle urne e i conseguenti spazi di manovra dell’esecutivo. La riforma come “necessaria a limitare il potere dei giudici, che lo usano a fini politici, per ostacolare le attività del governo“.

Il voto odierno trasformerà in legge quello che dal governo era considerato l’elemento forse più urgente della riforma: si è votato infatti per limitare quella conosciuta come la “clausola di ragionevolezza della Corte suprema di fronte all’esecutivo”, una clausola che prevedeva appunto per la Corte la possibilità di bloccare le decisioni del governo sulla base del concetto di “irragionevolezza”, come fatto ad esempio quando ha impedito la nomina da parte di Netanyahu di un condannato per frodi fiscali – l’ultra ortodosso Aryeh Deri – al dicastero dell’Economia.

Le conseguenze della norma – Oltre a questo punto, la riforma prevede anche dei cambiamenti ancor più sostanziali, che almeno nell’imminenza non verranno discussi alla Knesset. Il più importante consiste nel varo di nuove norme per ristrutturare la commissione che nomina gli stessi giudici della Corte Suprema: se oggi questi ultimi sono cooptati da una commissione di 9 membri, di cui 4 selezionati dal governo, in caso di riforma questi membri diverrebbero 11, di cui ben 8 nominati dall’esecutivo. Si tratta di una dinamica che ricorda molto quanto accaduto anche in Turchia.

Un altro potenziale cambiamento di simile natura riguarda i consiglieri giuridici del governo: essi sono attualmente nominati come delle “ombre”, per ciascun ministro in carica e per l’esecutivo, dovendo vigilare sulla legalità del loro operato, e senza poter essere rimossi dal governo stesso. Con la riforma, il loro incarico potrebbe invece prevedere la “fiducia” del governo stesso, di fatto azzerando la loro indipendenza, e rendendo i loro pronunciamenti delle mere opinioni, delle consulenze non vincolanti. Infine, l’elemento forse più grave e preoccupante potrebbe essere l’introduzione di una legge che permetta di neutralizzare il potere stesso della Corte Suprema, persino quando dichiara nulli dei provvedimenti sulla base della loro esplicita contrarietà alle Leggi fondamentali. Un’altra via con cui il governo vorrebbe sbarazzarsi di quelli che ritiene degli eccessivi ostacoli giuridici al proprio operato, pur avendo la Corte Suprema utilizzato questa prerogativa su una ventina di leggi in quasi 80 anni.

I rischi sulla democrazia – Non è esagerato sostenere che questa riforma mini alla base la tenuta democratica del paese – perlomeno per ciò che riguarda gli israeliani e la loro relazione con le istituzioni – rischiando di trasformarlo formalmente e concretamente in un regime autoritario, oltre che in uno Stato sempre più etnocratico. Israele è privo di una Costituzione, privo di una seconda camera in grado di frenare il legislativo, e le sue leggi fondamentali possono essere riviste facilmente. In questo contesto, la Corte Suprema nella sua attuale organizzazione ha sempre svolto un ruolo di moderazione e soprattutto di tutela delle libertà delle persone, come la comunità Lgbtq. L’unico vero contrappeso al potere del governo.

Non è chiaro cosa accadrà nelle prossime settimane, né che fine faranno gli aspetti formali e sostanziali della democrazia. I più soddisfatti oggi sono ovviamente i partiti ancellari del governo, quelli più razzisti e confessionali come Otzma Yehudit, guidato dal ministro della Sicurezza Nazionale (un ministero prima inesistente) Itamar Ben-Gvir, o il ministro delle Finanze, Bezalel Smotrich. Per questi personaggi la riforma della giustizia è un passaggio fondamentale nel loro disegno di costruzione di uno Stato predatorio ed etnoconfessionale (con i relativi rischi anche per il nutrito segmento di cittadini israeliani totalmente laici), nel rafforzamento dell’apartheid che passi per l’annessione illegale di ulteriori territori occupati in Cisgiordania, nei quali ormai vivono illegalmente più di 700mila coloni, talvolta armati fino ai denti.

La situazione è estremamente delicata, ed un saggio lo hanno dato le drammatiche parole di Yair Lapid appena dopo il voto. “È un giorno triste, un giorno di distruzione della Knesset. Un giorno di odio gratuito, per il quale chiedo al governo: che cosa celebrate? La distruzione dello Stato ebraico? Si tratta di una rottura completa delle regole del gioco”, ha detto il capo di Yesh Atid in conferenza stampa. “Il governo e la coalizione può decidere in che direzione va lo Stato, ma non può decidere il suo carattere”. Poi, un appello ai diecimila riservisti che si sono detti pronti a ritirarsi dalle Forze armate per non rispondere agli ordini di questo esecutivo: “non smettete di prestare servizio, per il momento”.

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