L’acqua occupa le cronache italiane dall’inizio dell’anno come raramente prima. Troppo poca perché piove e nevica, o perfino troppa non appena piove con una certa intensità. E, troppo spesso, la quantità e la qualità delle acque sono trattate come variabili del tutto indipendenti. È un retaggio culturale, prima che politico e amministrativo. La separazione tra le discipline accademiche e l’incomunicabilità tra le professioni porta a situazioni paradossali, al trionfo della sciatteria progettuale e alla moltiplicazione dei pani e dei pesci senza alcun positivo impatto sui cittadini.

Nel 2018 la Corte di giustizia Ue aveva sanzionato l’Italia con una maxi multa forfettaria da 25 milioni di euro in tema di scarichi. Una condanna che si sommava a quella del 2012, con l’aggiunta di buffetto pedagogico: “al fine di prevenire il futuro ripetersi di analoghe infrazioni al diritto dell’Unione”, avremmo dovuto pagare 30,1 milioni di penalità per ogni sei mesi di ritardo nel mettere a norma un centinaio di centri urbani o aree senza reti fognarie o sistemi di trattamento dei reflui. La questione dei servizi idrici, a lungo trascurata, in ballo dai primi anni ’90 del secolo scorso era diventata critica più di dieci anni fa e una assoluta urgenza cinque anni fa.

Anche se la multa da 55 milioni è una goccia in confronto al debito sovrano e alla manna dal cielo del Pnrr, ogni “gutta cavat lapidem”. E, qualche giorno fa, la Commissione europea ha deferito nuovamente l’Italia alla Corte di giustizia della Ue, a causa dell’inadeguato trattamento delle acque reflue urbane, secondo le regole stabilite da una direttiva di 32 anni fa, la Direttiva 91/271/Cee sul trattamento delle acque reflue urbane. È un’altra goccia di vergogna, perché le inadempienze dopo la sentenza della Corte del 2014 sono tuttora critiche, una in Valle d’Aosta e quattro in Sicilia. Accomuna zone ricche come l’agglomerato di Courmayeur e la Valdigne a una intera regione come la Sicilia dove “la situazione per quanto riguarda i sistemi fognari e depurativi è drammatica”.

I servizi idrici a rete richiedono attenzione e rispetto, non solo nuovi interventi. L’Italia ha una tradizione più che millenaria, se gli imperatori romani lasciarono ai barbari una città servita da ben 11 acquedotti. Non tutto il sistema è il colabrodo spesso denunciato, se tuttora l’acquedotto di Milano perde circa il 10% dell’acqua emunta dalla falda. È un ottimo risultato, giacché ci sono città con perdite superiori al 40 percento dove la riduzione dei consumi maschera le magagne del sistema.

Ogni italiano consuma meno acqua potabile rispetto agli anni ’70 del secolo scorso, circa il 20 percento in meno. Questa caduta ha ridotto l’impatto della fragilità di un sistema in buona parte obsoleto. E non certo sanata dal ricorso taumaturgico agli investimenti privati, perseguiti con esiti incerti dalle liberalizzazioni. Poiché siamo in una fase di stabilizzazione della domanda, gli interventi — strutturali e non — sono indispensabili e tutti concordano sulla necessità di investimenti cospicui. Pochi ammettono che non sia soltanto una questione di soldi, ma che ci vorrebbe anche “intelligenza”, passione e competenza. Soprattutto in ambito tecnico, del tutto asservito alla economia e alla finanza, alla organizzazione amministrativa e al controllo di gestione.

L’assetto delle reti italiane è una pelle di leopardo a tre dimensioni. Se le prime due sono l’efficienza idraulica e l’estensione del servizio, la terza tocca le tasche della gente e sono le tariffe. Milano continua a godersi le tariffe più basse d’Europa, con un servizio garantito da un sistema al cento percento pubblico, economicamente in attivo. Dall’ultima bolletta mi accorgo di aver speso circa 18 euro ogni cento metri cubi d’acqua potabile, a cui ho aggiunto 59 euro per lo scarico in fogna e la depurazione. E so che i miei reflui vengono depurati e re-immessi nel ciclo delle acque dall’impianto di Nosedo a favore dell’agricoltura.

Se abitassi a Segrate, cinque chilometri a est, pagherei quasi il 50 percento in più. Ma percorrendo lo stivale in lungo e in largo le differenze sono abissali perché la forchetta delle tariffe italiane è tra le più ampie d’Europa, come testimoniano tutti i Blue Book pubblicati dalle variegate istituzioni che si occupano di acqua, pubblica, semipubblica e privata. Una molteplicità di interpretazioni della tariffa, sia per scaglioni di consumo, sia per valori monetari specifici. E, rispetto a un milanese, alcuni cittadini pagano l’acqua anche dieci volte di più.

Clima, geomorfologia e idrologia disegnano un panorama assai sfaccettato, che comporta costi giocoforza diversi. Bisogna però capire meglio se e dove tale varietà implichi davvero una variabilità così ampia per le tasche dei cittadini. E va anche stabilito con trasparenza come declinare in pratica il principio dell’Onu che definisce l’acqua un “diritto umano universale e fondamentale”.

Oggi l’Italia è vestita d’arlecchino, un patchwork più complicato che complesso. Se la complessità non va mai sottovalutata, la complicazione inutile va combattuta. Il modello gestionale non è la cosa più importante, poiché il governo dell’acqua è una questione di respiro globale, che comporta sfide assai più temerarie. Ma da qualche parte bisogna cominciare e la definizione di un modello meno frastagliato è una necessità. E la prima pietra che la goccia dovrà scavare sono le diversità incomprensibili e inaccettabili: scientifiche, culturali e gestionali.

Articolo Precedente

Caldo torrido dopo alluvioni e siccità: per l’agricoltura è crisi climatica continua. Campi bersaglio dei colpi di calore, mucche stressate dall’afa e miele calato del 70%

next
Articolo Successivo

Forti raffiche di vento in Veneto e in Alto Adige, tetti scoperchiati e boschi distrutti: il disastro in presa diretta (video)

next