I giovani ambientalisti non sono più quelli di una volta. Cinquantatré anni fa, durante la prima Giornata della Terra del 22 aprile, 20 milioni di americani scesero in piazza chiedendo un’azione immediata per un problema urgente di salute pubblica: l’inquinamento ambientale. “Una malattia ha contagiato il nostro Paese” avvertivano i giovani dirigenti del comitato organizzativo. “I deboli stanno già morendo. Lo smog ha contagiato perfino il Yosemite Park, ha scaricato immondizia nel fiume Hudson, ha spruzzato il Ddt sul nostro cibo e ha lasciato le nostre città in rovina. Il suo artefice è l’uomo”. Quei giovani ascoltavano Randy Newman cantare Burn on: un brano magico, malinconico, sardonico sul fiume Cuyahoga che aveva perfino preso fuoco a Cleveland perché carico di rifiuti petroliferi.

Nel 1990, la condivisione di quella giornata a livello mondiale mobilizzò 200 milioni di persone al suono di Earth Day Every Day, un brano non proprio memorabile che John Denver aveva inserito nel suo album Earth Day. E l’iniziativa fu santificata dalle massime autorità nazionali e internazionali. L’ambientalismo era diventato un patrimonio comune, sia di sinistra sia di destra, capace di unire John Denver e Johnny Cash che nel 1974 cantava Don’t Go Near The Water.

Da allora qualcosa è stato fatto, soprattutto sotto la spinta delle istituzioni internazionali. Ma non molto. Nella maggioranza dei casi si è trattato di sottoprodotti, abbellimenti, cascami o benefici residuali del reale obiettivo: sviluppare l’economia di mercato, la crescita monetaria, l’espansione finanziaria. Nonostante che il poco che si è fatto e si farà sia oggetto di una ossessiva propaganda mediatica, le nuove generazioni percepiscono l’assoluta deriva resa evidente dal rapido esordio del cambiamento climatico e dal declino della qualità della vita, soprattutto su scala metropolitana. Con un bisticcio: si tratta di una qualità enormemente migliorata nel secolo scorso assieme e in virtù dell’inquinamento planetario.

Qualche giovane, più consapevole ma anche più focoso, si sfoga oggi con azioni dimostrative d’ispirazione un po’ anarchica, imbrattando i monumenti. Si spera con esiti facilmente reversibili, giacché i monumenti sono un fondamentale patrimonio culturale e una eredità storica irrinunciabile. Ma, per la mia veneranda età musicale, poco capisco dei brani ambientalisti della contemporaneità. E faccio fatica a seguirli.

Molti giovani, ancorati alla realtà metropolitana piuttosto che all’utopia, pensano che la transizione ecologica della mobilità sia uno slogan commerciale piuttosto che un’azione reale a favore dell’ambiente. Mentre vengono introdotte drastiche regole per indirizzare la motoristica e incentivare la rottamazione del parco veicolare tradizionale, nulla si fa per limitare i due fattori maggiormente inquinanti della mobilità: la velocità e la autobesità.

Per contrastare la prima, i giovani ambientalisti non hanno ancora inventato pacifiche azioni dimostrative in grado di spiegare all’opinione pubblica che limiti seri —per esempio, 90 chilometri all’ora per i veicoli leggeri e 60 per quelli pesanti in autostrada — avrebbero subito un enorme impatto positivo sull’ambiente, di gran lunga superiore a quello della lenta e dubbia evoluzione tecnologica.

Per contrastare la seconda, hanno scoperto una fastidiosa ma efficace azione dimostrativa. In tutta Europa e negli Usa sono entrati in azione i Tyre Extinguishers, gli sgonfiatori di pneumatici, nome che richiama gli estintori. Sono giovani ambientalisti che lottano contro l’inquinamento metropolitano, sgonfiando le gomme dei Suv. Il movimento è nato in Gran Bretagna dove, a Edimburgo, in sette mesi i “SUVversivi” hanno sgonfiato le gomme di diecimila Suv. E si è presto diffuso in Europa, anche a Milano e Bologna, e oltre atlantico, da Boston a Vancouver, from the east unto the west secondo la lezione di un premio Nobel. Questi giovani considerano i Suv disastrosi per il clima, la salute, la sicurezza pubblica, il paesaggio urbano, la civile convivenza. Un modello veicolare ad alto consumo di spazio cittadino e di carburante fossile che copre quasi la metà del mercato automobilistico globale. Non proprio un archetipo di consapevolezza ambientale che ha triplicato le emissioni negli ultimi dieci anni.

Sull’impatto di questa tendenza i giovani SUVversivi non hanno torto. L’obesità veicolare, che ha colpito anche il trasporto pesante con il favore delle normative europee e statunitensi, si è trasformata in una iattura. Nel 1969, l’auto europea più venduta era stata la Fiat 128, un capolavoro di tecnica, stile ed economia che fece scuola. Aveva una impronta di 6,1 metri quadrati e un ingombro di 8,2 metri cubi, consumava 6,8 litri di benzina “normale” ogni cento chilometri e pesava 750 chilogrammi. Nei primi tre mesi del 2023, l’auto più venduta è stata la bellissima Tesla Model Y, con una impronta di 9,1 metri quadrati, un ingombro di 14,8 metri cubi, 1.995 chilogrammi di peso. In cinquant’anni, l’auto europea occupa molto ma molto più spazio pubblico, più o meno inalterato dal 1969 se non diminuito come in molte città italiane che ne hanno privatizzato una parte consistente. E, soprattutto, l’auto è malata di obesità, ingrassata del 166 percento.

Qualche effetto positivo i SUVversivi lo hanno ottenuto, ancorché minimo. Ma hanno spezzato un tabù. Il sindaco di Lione ha deciso di far pagare più salata la sosta alle auto di grossa cilindrata. Il consiglio comunale di Parigi ha votato a favore di una risoluzione analoga che dovrebbe entrare in vigore nei primi giorni del 2024. Nel contempo, le gesta dei SUVversivi hanno alimentato le vendite dei mini-compressori a batteria, in grado di rigonfiare le gomme ed evitare al SUVrappeso una costosa chiamata del carro attrezzi. È il mercato, bellezze, e non ci possiamo fare niente. Niente.

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