Ha fatto scalpore, in questi giorni, il rientro in Italia del giocatore Jakub Jankto, dichiaratamente gay. Il primo in serie A, nella squadra del Cagliari. In un mondo – quello del calcio – in cui sono ancora molto forti i sentimenti negativi sull’omosessualità. Un rientro, dunque, che fa già rumore. Non solo nei commenti da bar e sul web, ma anche ai piani alti della politica.

Prima di entrare nel caso specifico, credo sia importante partire da un presupposto fondamentale: il coming out è un atto politico. E lo è sempre. Sia fatto in casa di fronte a un genitore che vuole (o a cui si vogliono dare) spiegazioni. Sia a livello pubblico, soprattutto se a farlo sono personaggi molto noti. Il coming out è necessario perché viviamo in una società che prevede solo l’eterosessualità dei suoi componenti (e che potremmo così definire “obbligatoria”). Le persone Lgbt+ vengono viste di volta in volta come un imprevisto, qualcosa di indesiderabile e, nei casi più gravi, come un errore di sistema da correggere o annientare. Pensiamo a quanto sta succedendo in Russia e Uganda, con le ultime leggi che prevedono rispettivamente le terapie riparative o la pena di morte.

Il paradosso di tale narrazione sta nel fatto che a portarla avanti sono gli eterosessuali, condizionati da pregiudizi o da profonda ignoranza in materia. Per millenni, noi persone Lgbt+ siamo dunque state narrate da un punto di vista esterno e spesso distorto. In questo quadro, ancora oggi, il coming out è dunque pratica essenziale. Almeno per tre ragioni: dà voce a chi la propria omosessualità la vive. Perché la visibilità mette in moto una serie di comportamenti che creano comunità, rompendo il senso di solitudine di giovani e adolescenti. E perché, quando viene fatto da personaggi noti, può costituire un modello positivo.

Il coming out è l’anticamera di uno stare al mondo che rompe l’isolamento, genera comunità, porta il soggetto che lo compie ad avere una vita più piena, alla luce del sole. Libera. Ed è quello che ha detto lo stesso Jankto: “Come tutti gli altri, anche io voglio vivere la mia vita in libertà. Senza paure. Senza pregiudizi. Senza violenza. Ma con amore. Sono omosessuale e non voglio più nascondermi”.

Basterebbe questo per chiudere la questione una volta per tutte e riconoscere e rispettare il giocatore del Cagliari. A chi chiede “ma che bisogno c’è di dirlo?” rimando alle parole di Jankto: per non vivere nella menzogna. Se poi questa domanda viene fatta da alcuni utenti sui social, di solito perdo quei due minuti a guardare il loro profilo. E molto spesso vedo che, tra le foto, ci sono quelle con la propria eterosessualissima famiglia. E a queste persone rispondo: per lo stesso motivo per cui avete immagini che vi ritraggono con moglie/marito e figli.

Basterebbe questo, appunto. Ma purtroppo la politica ci ha messo lo zampino. Nelle dichiarazioni, non proprio felici, del ministro dello Sport Andrea Abodi. Che ha affermato, in merito: “La società probabilmente, in generale, ancora qualche passo in avanti può farlo. Per quanto mi riguarda è prima di tutto una persona e secondo è un atleta. Non faccio differenze di caratteristiche che riguardano la sfera delle scelte personali”. Per poi continuare: “Se devo essere altrettanto sincero non amo, in generale, le ostentazioni, ma le scelte individuali vanno rispettate per come vengono prese e per quelle che sono. Io mi fermo qui”.

In realtà il ministro poteva fermarsi anche molto prima. Ma su una cosa ha ragione: la società dovrebbe fare qualche passo in più. Purtroppo – c’è da aggiungere – con il governo di cui fa parte, questo avanzamento non lo vedremo mai, almeno finché Giorgia Meloni sarà al potere. Ha ragione anche quando sostiene che Jankto prima di essere un atleta è una persona. E se ne riconosciamo l’umanità, dobbiamo riconoscerne anche le sue caratteristiche identitarie: l’omosessualità, tra queste. Una variante naturale del comportamento umano, secondo quanto dichiarato dall’Oms nel 1990. Sbaglia, invece, quando parla di scelte. Perché non si sceglie il proprio orientamento sessuale, al massimo si decide di viverlo alla luce del sole o meno.

Sull’ostentazione, infine. Dovremmo considerare un diritto l’aspirazione a vivere una vita piena, senza provare vergogna per ciò che si è. Un diritto che rende più felici, in moltissimi casi. Che dice al mondo chi siamo davvero, senza finzioni. Al massimo, si “ostenta” felicità per quello che riusciamo a vivere, quando raggiungiamo l’idea che abbiamo di noi stessi. E un ministro dello Sport dovrebbe essere felice all’idea di milioni di giovani e adolescenti – ma anche di persone adulte – che, sui campi di calcio come sui campi d’atletica, mostrano la loro felicità per essere semplicemente ciò che sono. E riprendendo Abodi, forse, su questo punto, la società ancora qualche passo in avanti può farlo. La destra di cui è espressione il ministro, invece, deve.

Articolo Precedente

Il silenzio di Meloni sui casi La Russa e Sgarbi è inaccettabile

next