di Claudia De Martino

Il campo profughi di Jenin, fondato nel 1953 nell’allora Regno hashemita di Giordania per ospitare i rifugiati palestinesi sfollati durante la Nakba o guerra di indipendenza israeliana, raggruppa attualmente una popolazione fluttuante compresa tra le 12mila persone censite dall’Ufficio centrale di Statistica palestinese e le 23.628 registrate dall’Unrwa, l’agenzia delle Nazioni Unite dedicata ai rifugiati palestinesi, stipate in appena mezzo chilometro quadrato all’interno di un’area urbana di 39 mila abitanti. Nel 2002, durante la Seconda Intifada, il campo profughi fu oggetto di un assedio di dieci giorni durante il quale metà della popolazione dovette fuggire e circa 400 abitazioni rimasero distrutte.

Ad oggi l’“Operazione Casa&Giardino”, come è stato eufemisticamente ribattezzato il raid lanciato dalle forze speciali israeliane il 2 luglio, ha lasciato sul terreno 10 morti e oltre 100 feriti dal lato palestinese, mentre due sarebbero i soldati caduti da parte israeliana, di cui uno probabilmente vittima di un incidente, ovvero di fuoco amico. Jenin è lo stesso campo-profughi ai margini del quale l’11 maggio 2022 fu brutalmente e volontariamente uccisa dalle forze di sicurezza israeliane la giornalista Shireen Abu Akleh, impegnata nella copertura mediatica di una precedente operazione dell’Esercito di difesa israeliano (Tshal): un “incidente”, secondo le autorità israeliane, su cui fu aperta un’inchiesta interna che, però, non portò all’accertamento di alcuna responsabilità individuale.

Jenin è, dunque, costantemente al centro degli scontri con Israele, rappresentando la roccaforte del “fronte della resistenza” in Cisgiordania, ovvero di quella costellazione di forze palestinesi e gruppi armati che in passato si opposero agli Accordi di Oslo, e che oggi riunisce non solo unità di Hamas (Brigate al-Qassam) e della Jihad islamica, riunite nelle “Brigate Jenin” di nuova formazione (2021) e in costante coordinamento con le rispettive organizzazioni centrali presenti nella Striscia di Gaza: anche i due bracci armati di al-Fatah, le “Brigate dei martiri di al-Aqsa” e le “Brigate Abdel Qader al-Husseini” – sempre più indipendenti dall’Autorità Nazionale Palestinese (Anp), a cui contestano lo stallo politico e il continuo coordinamento in materia di sicurezza con Israele.

Infine, la nuova unità di combattenti appena costituitasi (luglio 2022) proprio a Jenin, La Tana dei Leoni (Arīn al-ʾUsud), celebre per l’abilità di sfruttare i social media, TikTok e Telegram in particolare, per diffondere in presa diretta i suoi attacchi. Il campo profughi di Jenin è anche considerato un deposito nascosto di armi di provenienza dal Libano o dall’Iran e il rifugio di numerosi terroristi che vi fanno riparo dopo aver perpetrato attacchi nelle colonie o in Israele, sfruttando la densità umana del campo e la sua difficile viabilità, che dal 2002 ad oggi aveva dissuaso l’esercito israeliano da un’operazione di terra su vasta scala.

L’obiettivo dell’attuale operazione israeliana è stato quello di ripristinare la deterrenza dell’esercito di fronte ai gruppi armati palestinesi, recentemente proliferati in termini di sigle ma anche cresciuti nel numero assoluto degli effettivi, ma non è chiaro se “Casa&Giardino” in soli due giorni abbia raggiunto tale obiettivo. Le autorità israeliane hanno chiesto alla popolazione civile di evacuare temporaneamente il campo per evitare al massimo vittime collaterali, anche cercando di isolare il più possibile i guerriglieri dalla loro base sociale, ovvero da quella massa grigia di opinione pubblica palestinese che sostiene da lontano le operazioni della Resistenza e la ripresa della lotta armata contro Israele, essendo ormai convinta che non vi sia più alcun possibilità di ripresa negoziale del processo di pace nei termini pattuiti a Oslo.

Questa parte maggioritaria dell’opinione pubblica palestinese non si sente più rappresentata dall’Autorità Nazionale Palestinese che la governa e ritiene inammissibili i pogrom perpetrati da coloni israeliani ad Huwara, Al-Lubban ash-Sharqiya e in altre località localizzate in piena area B (aree a giurisdizione mista israelo-palestinese). In quest’area le forze di sicurezza dell’Anp non si sono schierate a salvaguardia della popolazione civile pur di non entrare in conflitto con l’Esercito israeliano o causare vittime o arresti tra gli ebrei, interiorizzando una sorta di dipendenza strutturale che si scontra anche contro il precario stato di diritto risalente a Oslo.

Ad oggi, l’unico bastione di legalità a cui i Palestinesi di Cisgiordania possono ancora appellarsi è la Corte Suprema, che ha recentemente invalidato un decreto legge governativo (Regulation Law of 2020) chiedendo l’evacuazione di alcuni insediamenti illegali costruiti su terreni privati di accertata proprietà palestinese in violazione della Convenzione di Ginevra, ma quando anche la Corte di giustizia verrà sottoposta al potere esecutivo nella prossima riforma giudiziaria in discussione, i civili palestinesi rimarranno completamente inermi nei confronti dell’autorità militare israeliana e dell’ala violenta dei coloni.

La vasta distruzione del campo profughi ha arrecato ingenti danni umani e materiali, ma non riuscirà nell’intento di ostacolare l’organizzazione di nuove unità armate o la volontà di singoli individui di compiere nuove azioni armate in Israele o nelle colonie. Tuttavia provocherà fenomeni di ulteriore radicalizzazione in una già sfiduciata opinione pubblica palestinese, soprattutto in assenza di misure riparative da parte dell’Anp, che sembra aver abbandonato tanto il campo profughi che la città di Jenin al loro destino, non controllandoli più né politicamente né militarmente, sancendo di fatto il suo distacco da quella parte di popolazione che non crede più all’offensiva diplomatica né al suo testimonial, il presidente Abu Mazen.

E c’è solo da sperare che l’evacuazione dei circa tremila civili scacciati dalle loro case si riveli veramente temporanea e non la prova generale di un nuovo trasferimento di popolazioni da “zone calde” della Cisgiordania a luoghi maggiormente controllabili da radar e droni in cui i legami sociali siano allentati per spezzare, assieme alla “perseveranza” (sumud) politica, anche un altro pezzo di identità nazionale palestinese.

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