di Claudia De Martino

Il 27 marzo, dopo un braccio di ferro tra governo e manifestanti durato dodici settimane consecutive e dopo una spettacolare manifestazione tenutasi la sera del 26 marzo – che ha portato in piazza 160.000 persone in tutte le principali città del Paese (Haifa, Jerusalem, Be’er Sheva, Netanya, Ashdod, Karmiel) con la concentrazione più grande nell’arteria stradale di Ayalon a Tel Aviv – , il brusco licenziamento del ministro della Difesa, Yoav Galant, espostosi a favore di una sospensione della riforma, e il più grande sciopero generale che la storia israeliana ricordi negli ultimi quarant’anni, indetto il 27 marzo dall’importante sigla sindacale dell’Histadrut – che ha coinvolto banche e servizi pubblici essenziali come i trasporti-, il Primo ministro Netanyahu si è visto costretto ad annunciare il rinvio della riforma a dopo l’estate nell’intenzione di trovare una convergenza con i partiti dell’opposizione e un maggiore consenso nel Paese prima della sua adozione.

I media internazionali, inclusi quelli ebreo-americani, hanno salutato con ottimismo e gioia il sussulto democratico di una popolazione, come quella israeliana, che negli ultimi anni era sembrata piuttosto apatica e depoliticizzata, ma che invece ha dimostrato molta tenacia e la capacità di schierarsi compattamente sulle questioni che sono al cuore della tenuta sociale del Paese. I manifestanti, non rappresentati da alcuna sigla politica del Paese nonostante l’appoggio esterno dei partiti di opposizione – ed in particolare del partito Yesh Atid di Yair Lapid che la sera del 27 marzo ha inneggiato al successo delle proteste in un discorso a Gerusalemme -, provengono tanto dai residui della sinistra (Meretz e Labour) che da forze di centro-destra e destra (inclusi sostenitori della coalizione di governo alle ultime elezioni) che non hanno apprezzato la preminenza, la fretta e la chiusura totale a ragionevoli contributi migliorativi della riforma – come quello proposto dal Presidente Herzog lo scorso 15 marzo – espresse dal governo, ma che soprattutto hanno reputato a rischio l’equilibrio istituzionale tra poteri e temuto un conseguente cedimento dello Stato di diritto.

All’interno della composita massa dei manifestanti scesa in piazza vi sono molte persone laiche che guardano con apprensione alla scalata della destra nazional-religiosa al governo e alla guerra che essa conduce – fin dalla cosiddetta “rivoluzione costituzionale” operata dal giudice Aharon Barak negli anni 90 – contro la Corte Suprema come preteso baluardo dei valori liberali occidentali (percepiti come “stranieri”). Questa componente ritiene che, dietro il progetto di addomesticamento della Corte, vi sia in realtà l’obiettivo più ampio di trasformare la società israeliana in senso conservatore abolendo molti diritti civili – come i diritti Lgbt+, l’aborto, ma anche alcune libertà delle donne – per riportare i costumi ad una medioevale sobrietà ebraica senza le pastoie della Corte, che ad oggi può essere adita anche da singoli individui oggetto di discriminazione in violazione della Legge fondamentale sulla “Libertà e dignità umana” (1992).

Elemento determinante nel recente cedimento del governo, tuttavia, è stata la mobilitazione e l’adesione allo sciopero generale del 27 marzo dei grandi colossi commerciali del settore agroalimentare e dei maggiori centri commerciali – Azrieli Group and Amot, Shufersal Group, Teva, Simpliigood -, ma anche del potente settore high-tech, che comprende tante start-up di successo, come Verbit, Riskified, Atera, il gruppo Generative AI platform developer D-ID, e società finanziarie, come Amiti Ventures, distribuite sulla costa tra Tel Aviv e Haifa: il settore economico a maggiore valore aggiunto si è infatti compattamente schierato contro la riforma, dopo che il Ministero del Tesoro aveva pubblicato delle previsioni di contrazione dell’economia del 30%, lo scambio tra shekel e dollaro si era attestato ai suoi livelli minimi, le maggiori agenzie di rating (Fitch e Moody) avevano ridimensionato le stime di crescita del Paese e numerosi correntisti privati avevano ritirato i loro depositi dalle banche nazionali per trasferirli all’estero.

La preoccupazione del settore finanziario si appunta principalmente sul rischio di dipendenza del settore giudiziario dalle volatili maggioranze politiche, che in futuro potrebbero decidere di violare contratti commerciali privati con leggi ad hoc o aumentare fortemente la tassazione per compensare le crescenti spese sociali o militari senza più il freno inibitore della Corte Suprema. Per un piccolo Paese fortemente dipendente da investimenti esteri, l’incertezza giudiziaria e regolativa può infatti potenzialmente impattare negativamente sul volume d’affari, deteriorando radicalmente il clima di fiducia funzionale all’economia.

Tuttavia, nonostante il significato importante della mobilitazione generale in corso, è bene ribadire che non vi è alcun rischio di “guerra civile” in Israele, ma è in corso una crisi politica attraverso cui il Paese, 75 anni dopo la sua fondazione, esce dalla sua infanzia e con essa dall’illusione di potersi considerare una “grande famiglia”, ovvero una società perfettamente coesa e omogenea che si riflette negli stessi obiettivi e ideali, quelli sionisti. La bussola del sionismo, invece, spiega sempre meno la società odierna, non definisce più alcuna appartenenza significativa e non riflette alcuna prospettiva futura per il Paese, tranne la volontà di difendere l’ormai già consolidato diritto dello Stato ad esistere contro tutti i suoi potenziali nemici.

La controversa riforma giudiziaria non ha niente a che vedere con la revisione di procedure costituzionali, ma piuttosto con un obiettivo di fondo della destra religiosa, orientato ad una profonda ristrutturazione politica dello Stato di Israele che conceda al governo in carica pieni poteri, tali da completare il progetto di colonizzazione nei Territori occupati, dichiarare la vittoria finale e definitiva sul nemico palestinese attraverso lo smantellamento dell’ANP, archiviare definitivamente la “soluzione a due Stati” a livello internazionale e liberare l’azione dell’Esercito di difesa israeliana (Tsahal) nei Territori dai soli vincoli legali ancora frapposti dalla vigilanza della Corte suprema, che, ad esempio, tutela i diritti di proprietà palestinese alla terra contro degli espropri avanzati dai coloni negli avamposti illegali in Cisgiordania e garantisce la partecipazione alle elezioni israeliane di partiti arabi nazionalisti come Balad, periodicamente bollati come “sleali” e squalificati dai comitati elettorali su presunte incitazioni al terrorismo (si veda la sentenza di Bagatz del 2003).

In definitiva, la destra religiosa vorrebbe promulgare la riforma giudiziaria solo per agire indisturbata rispetto ai suoi obiettivi millenaristici di redenzione della terra, mentre Netanyahu sarebbe pronto ad apporre il sigillo a qualsiasi riforma esclusivamente per mantenere coesa al potere la sua maggioranza e così salvarsi dalla condanna giudiziaria nei tre casi di frode, corruzione ed abuso d’ufficio che lo vedono direttamente coinvolto.

Di fronte a questo scenario regressivo – in cui si profilava un tentato “colpo di Stato” giudiziario della destra religiosa con il beneplacito di Netanyahu -, una parte cospicua della società civile israeliana ha reagito con forza alla minaccia di trasformazione del Paese in una delle tante teocrazie illiberali della regione, scendendo in massa in strada. La crisi interna in corso non indebolisce il Paese nei confronti dei suoi nemici locali (Hizbullah) o lontani (Iran), ma certamente, se la riforma passasse, allontanerebbe Gerusalemme da Stati Uniti, Europa, dalle comunità della diaspora e persino da quei Paesi arabi sunniti inclusi o orbitanti intorno agli Accordi di Abramo. Nondimeno la pretesa dei manifestanti di difendere la “democrazia” è pretestuosa, fintanto che la metà della popolazione che vive nei territori occupati (Cisgiordania) o segregati (Striscia di Gaza) da Israele non avrà diritto alcuno di cittadinanza e la tacita “linea rossa” premessa alla tenuta della coesione interna al campo dei manifestanti sarà proprio la rimozione collettiva della “questione palestinese”.

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