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Eugenio Bennato a FQMagazine: “Naturale parlare con la musica anche di Mediterraneo e mettere in positivo la presenza degli extracomunitari e del loro patrimonio culturale”

Sta lavorando all’album Musica dal mondo che uscirà a breve. Ci fa ascoltare in anteprima un brano nato dalla collaborazione con gli Yar Mohammad, una band di world music indiana: "Negli anni ho capito che la nuova immigrazione è una linfa densa di stimoli. Non mi stancherò mai di sottolineare un aspetto che fa riflettere: mi è spesso capitato di conoscere persone emigrate dall’Africa, dotate di un eccezionale background musicale. Si tratta di donne e uomini che qui svolgono i lavori più umili..."

di Domenico Marcella

Eugenio Bennato è in studio di registrazione. Sta lavorando all’album Musica dal mondo che uscirà a breve. Ci fa ascoltare in anteprima un brano nato dalla collaborazione con gli Yar Mohammad, una band di world music indiana: “Li ho incontrati a giugno a Nuova Delhi, durante la tappa indiana del tour Vento Popolare, e dopo dieci minuti ci siamo fatti immediatamente travolgere dall’entusiasmo di suonare insieme. Il risultato è un prezioso fraseggio musicale e strumentale, ascolta…”. Comincia così l’incontro con il cantautore partenopeo vocato da sempre alla sperimentazione musicale, alla ricerca filologica, all’ospitalità, all’accoglienza, alla gentilezza e al saper mettere tutti a proprio agio. Sotto la solita chioma arruffata, sempre più screziata di bianco, con voce profonda e rassicurante, Eugenio soppesa parole che sembrano scorrere liberamente dalla coscienza: “Non conoscevo l’India, ci sono stato all’inizio di giugno e ne sono rimasto stupito. Un’esperienza di grande arricchimento”.

Ennesima dimostrazione che la contaminazione e la mescolanza producono nutrimento e arricchimento.
Be’ sì. Sono fiero di aver introdotto per primo nella musica italiana le voci del Maghreb in Che il Mediterraneo sia (2002 ndr). In quella che non considero soltanto una hit ma una koinè mediterranea si fondono armoniosamente le sonorità etniche del nostro sud e le antiche melodie arabe. Partire con quel genere è stata un’operazione musicale – non un progetto intellettuale, e meno che mai politico – che successivamente ha spianato la strada al rap arabo, che fino ad allora era abbastanza sconosciuto.

Eugenio, sei sempre stato un precursore.
Mi sento soprattutto un autore che si diverte ogni giorno a inventare nuove melodie. La musica è un veicolo potente: incentiva il dialogo tra popoli anche quando è compromesso da frontiere e conflitti. Mi è sembrato abbastanza naturale, a un certo punto, cominciare a parlare di Mediterraneo, e mettere in positivo la presenza in Italia degli extracomunitari e del loro infinito patrimonio culturale. Mi affascina tutto ciò che si contrappone alla cultura dominante.

E infatti i fotogrammi della tua vasta carriera – da Musicanova a Taranta Power, passando per l’esperienza con la Nuova Compagnia di Canto popolare – rivelano che hai sempre fatto il contrario di tutto quel che le epoche imponevano.
Non è stata una mossa intellettuale o snob, ma un desiderio di seguire sempre il filo della bellezza. Negli anni Settanta, ho fondato Nuova Compagnia di Canto Popolare. Ero un ragazzo un po’ folle, attratto dalle sonorità sconosciute alle nuove generazioni. In netta controtendenza rispetto a tutto quello che circolava, ho messo in piedi una realtà che affermava la musica delle regioni e dei posti più improbabili d’Italia. Sono andato nelle campagne a cercare gli anziani maestri, per convincerli a trasmettere la loro arte. Erano ai margini, considerati figure di poco conto, ma grazie al loro prezioso contributo abbiamo dato vita a un vero e proprio movimento culturale, prima che i loro insegnamenti andassero perduti per sempre. È stata una scelta coraggiosa, che ha avuto da subito la priorità dell’apertura mentale al diverso. La musica popolare, inoltre, contiene al suo interno delle istanze di rivendicazione interessanti; era importante, per noi, metterla al pari del gospel, del jazz e del blues: generi nati nel Novecento dal popolo africano portato schiavo in America.

Ci sono popolazioni che ancora oggi chiedono aiuto e noi occidentali. Abbiamo spodestato i loro dittatori senza scrupoli, promettendo aiuto e sostegno. Stiamo reagendo, però, con indifferenza e menefreghismo.
Già. Il fenomeno delle ondate migratorie dovrebbe permettere a chiunque di abbandonare il pregiudizio e fare i conti con la cultura del confronto e dell’accoglienza. Negli anni ho capito che la nuova immigrazione è una linfa densa di stimoli. Non mi stancherò mai di sottolineare un aspetto che fa riflettere: mi è spesso capitato di conoscere persone emigrate dall’Africa, dotate di un eccezionale background musicale. Si tratta di donne e uomini che qui svolgono i lavori più umili. Grazie a loro sono venuto a conoscenza di musiche e ritmi che provengono dal Maghreb, dal Marocco, dall’Algeria che hanno irrobustito la mia musica. Abbiamo lavorato insieme e scoperto una matrice comune.

L’album in lavorazione contiene un brano liberamente ispirato al naufragio di un barcone in Calabria.
Sì, si intitola Melissa Calabria Europa e fa riferimento a un episodio del 2019, quando all’alba di gennaio ci furono delle grida dal mare e la popolazione di Torre Melissa – un piccolo centro del crotonese – si è prodigata, con grande generosità, per salvare, riscaldare, rivestire, accogliere i profughi curdi. Un episodio che si contrappone alle tragedie del mare, non ultima quella del peschereccio naufragato recentemente al largo delle coste greche. Mi andava di cantarlo, di ricordarlo, per contribuire a veicolare messaggi appannaggio di tutti, e per raccontare una storia diversa.

Lo hai fatto egregiamente anche con le composizioni sui briganti.
Be’ sì. Mi è venuto naturale accendere i riflettori sulla loro storia negata e su tanti altri fatti. Penso al brigante lucano Nico Nanco. La ballata contenuta nel mio album Questione meridionale (2011 ndr) ha portato alla ribalta la sua straordinaria figura. Nella foto che lo ritrae a terra, ferito a morte dai colpi di un fucile, appare fiero come Ernesto Che Guevara, un’altra icona di uomini contro. Sono stato fortemente ispirato dalla musicalità del suo nome. Esiste una magia strana che prevale sull’interesse storico, riuscendo a coinvolgere i cuori e le menti. È questa l’energia che inseguo. Basta un racconto musicale per esprimere concetti differenti e per infrangere tabù.

Bisogna ammettere, però, che tanti tabù non sono ancora stati infranti.
Perché su di essi prevalgono gli interessi personali ed economici, non la compassione e la solidarietà umana. Lo so, è una risposta debole, me ne rendo conto, ma non vorrei apparire troppo politico.

La politica non è quella che scorre dai palazzi del potere, ma quella delle scelte che facciamo. Tu hai sempre fatto politica, buona politica. Lo dimostra anche la recente partecipazione alla Marcia per la Pace di Cinquefrondi, in provincia di Reggio Calabria.
Non posso che essere d’accordo. Ogni nostra scelta è politica. Così come la mia decisione di partecipare a quella straordinaria esperienza. A Cinquefrondi ho incontrato amici di vecchia data come Luigi de Magistris e Michele Santoro, ma anche tanti ragazzi che hanno sfilato sotto il sole cocente per manifestare la propria contrarietà a tutti i conflitti che non ci saremmo aspettati di vedere ancora. Occasioni simili ci permettono di sensibilizzare ulteriormente al bello.

Il riferimento alla bellezza è costante. La bellezza può ancora salvare il mondo?
Ne sono convinto, sì. L’arte è il dominio del bello anche nelle sue manifestazioni più turbinose: si pensi alla Pinturas Negras di Francisco Goya o ad alcune tele di Picasso. Ogni cosa si basa sull’armonia di un tocco di colore o di una melodia. La potente bellezza dell’arte può scalzare il potere o trasgredirlo gentilmente. Ogni mia scelta, infatti, non è stata finalizzata a un progetto specifico, ma alla ricerca della bellezza e alla capacità dell’arte di rinnovarsi e di comunicare – facendo leva sul sentimento popolare – per sovvertire l’aridità della società.

Cosa dobbiamo ancora aspettarci da Eugenio Bennato?
Ti confesso che è una domanda alla quale non so dare risposta. Ogni volta che scrivo qualcosa mi chiedo cosa mi aspetto da me. C’è un meccanismo misterioso che mi porta ad abbracciare una melodia o un verso e a seguirlo.

Ti fai così trascinare altrove?
Sì, verso percorsi sempre nuovi. Fare arte vuol dire inventarsi qualcosa che prima non esisteva, non certo fare il revival statico di se stessi o degli altri. Fare arte è scoprire al proprio interno qualcosa che non è ancora stato composto o creato e dargli forma.

E questo ti sorprende ogni giorno, giusto?
Infinitamente, sì. E mi emoziona anche.

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