In questi giorni – a latere delle questioni ben più serie create dai pasticci imprenditoriali dell’attuale ministra del Turismo – assisto con una punta di commozione al remake della liaison tra una carampana e il suo toy-boy; riedizione grottesca di un modello antecedente del quale sono testimone. E – se volete – di cui vi racconto la storia.

Infatti la vicenda del sedicente principe Dimitri Miesko Kunz d’Asburgo-Lorena Piast Bielitz Bielice Belluno Spalla Rasponi Spinelli Romano, damo di compagnia della regina di denari nel paese delle meraviglie Daniela Garnero già Santanché, mi ha riportato agli anni della fanciullezza e a un ambiente vagamente irreale: viaggiavo con i miei genitori sulla Giulio Cesare, liner della compagnia Italia Navigazione di allora, sulla rotta da Buenos Aires a Genova; nel lusso demodé di quelle sale e di quei ponti che ospitavano gli ultimi esemplari di una fauna che a quel tempo in Argentina veniva chiamata “la selecta minoria” (estancieros e fazenderos latino-americani, gentlemen e bon vivants europei): elegante quanto svaporata, di buone maniere non meno che fané. Con ininterrotto sottofondo musicale dell’orchestrina all’opera per allietare i croceristi.

A Montevideo venne imbarcata una coppia singolare, composta da una monumentale matrona ingioiellata (una sera mostrò a mia madre come i suoi diademi e collane fossero tutti firmati Cartier) con a fianco un giovane belloccio e dal capello un po’ lungo: l’apolide jugoslavo che presentava quale proprio segretario Vladimiro. Sicché, appena messo piede sulla nave, sganciò immediatamente al capo-cameriere, precipitatosi a raccoglierne ossequiosamente il beauty-case e la pelliccia di zibellino platino, una cospicua banconota accompagnata da un ordine perentorio: “lo chiami conte”. La risposta immediata del domestico, resosi subito conto dell’entità di quella mancia, fu l’involontariamente ironico “se vuole lo posso chiamare pure principe”.

Si trattava della duchessa D’Arenberg Matildis, moglie dello zio di Baldovino re del Belgio; abituée della rotta Uruguay-Cannes e popolarissima per le prebende fuori ordinanza che era solita distribuire al personale di bordo.

La sera stessa avvenne il fattaccio: gli occupanti delle cabine di prima classe sul ponte lancia furono svegliati dalle urla lancinanti provenienti dall’appartamento ducale. Il giorno dopo sapemmo dal medico di bordo ridacchiante (e pettegolo come di prammatica) che si trattava dei lamenti disperati del segretario conte per un terribile morso inflittogli al costato dalla sua – diciamo così – datrice di lavoro; almeno una quarantina d’anni più anziana. Sicché lo sventurato giovanotto per giorni si presentò in piscina con il torace inguainato in un maglione; e solo dopo molte insistenze ci mostrò l’impronta impressagli sulla carne dall’aristocratica dentiera. Poi ci fu la grande festa in maschera al passaggio dell’equatore. E la duchessa pretese dal comandante e dal commissario di bordo, preposti ad accontentarne ogni capriccio, di esibirsi in un a-solo di flamenco in costume da zigana. Soltanto che alla prima spaccata restò bloccata con una gamba avanti e una indietro. Posizione imbarazzante da cui venne tratta dall’intervento di un nostro amico brasiliano sollevandola per le ascelle. Che quando lei gli disse “al mio Paese dopo una danza così si va a fare all’amore”, se la squagliò precipitosamente mormorando “desculpeme, Yo soy mucho borracho” (scusi, ma sono sbronzo). Solo allora mi accorsi che, dietro un angolo della sala, l’apolide Vladimiro se la stava ridendo.

Poi sapemmo che la cannibalessa del Plat Pays – in effetti – era l’infermiera dell’ottantenne duca D’Arenberg, da cui si era fatta sposare; rivelando la stessa passione per i cognomi altisonanti della sua epigona Garnero. Non meno della passione per i toy-boy da impreziosire con mirabolanti titoli nobiliari di fantasia, irresistibili per queste pervicaci arrampicatrici sociali.

Ora mi trovo a immaginare la pitonessa cuneese immobilizzata da un’improvvisa paralisi mentre circonda nelle sue spire il suo sedicente principe in preda al terrore. E più che ridere provo per qualche istante una profonda pena, come mi faceva pena l’altra carampana stesa per terra a gambe divaricate come una bambola rotta.

Compatimento che riguardo al caso odierno dura solo un attimo, ricordando l’espressione grifagna della cuneese in carriera e la sua biografia; delle sofferenze che ha inflitto e infligge con la sua incoscienza a dipendenti e fornitori. Mentre sfreccia sulla Maserati noleggiata a 77 mila euro, non restituendo i prestiti ottenuti dallo Stato.

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