La morte può “chiudere”, oppure “aprire”. Recidere anche il flusso dei ricordi, oppure innescarli. Permettendogli di andare a recuperare quel che era stato dimenticato. Sepolto da molto altro.

La notizia che Vincenzo D’Amico ha cessato di vivere mi ha provocato molta tristezza. È stato il giocatore più divertente della mia Lazio. Quello capace di risolvere una partita, quando ispirato. Di risolverla, direttamente. Con uno dei suoi calci di punizione ad effetto. Magari un tiro in movimento dopo un’azione funambolica. Ma anche indirettamente. Con una giocata per un compagno. Una invenzione delle sue. Inimitabile. Per me, tifoso parziale. Ma anche per gli “esperti”.

D’Amico non l’ho mai conosciuto, ma quando frequentavo lo stadio, lo chiamavo per nome. “Vai, Vincenzo!!!”, gridavo dopo un’azione. “Vincenzo, Vincenzoo, Vincenzooo!”, ripetevo come un ossesso, salutando un goal. L’ho visto giocare una infinità di volte. Gli ho visto segnare reti memorabili. Ma l’ho anche visto giocare partite normali. E senza i suoi famosi acuti. Ma è stato un mio idolo. Perché aveva fantasia, in campo. Ma anche fuori. Sempre scanzonato. Allegro. Con gli occhi spesso ridenti. Non so se sia stato realmente sempre quel che avevo l’impressione fosse. Ma la sensazione che mi restituiva era propriamente questa. Di divertirsi. Di essere contento di quel che faceva. E già questo me lo faceva sembrare speciale.

Con il tempo ho più apprezzato questo suo essere. Mi ha regalato la sua fantasia e il suo buonumore. Mi ha insegnato, senza saperlo, che bisogna trovare soddisfazione in quel che si fa. E non lasciare che il risultato finale infici quel che è accaduto prima.

D’Amico per me rappresenta lo scudetto “epico” del 1974. Quando lui era ancora un ragazzo ed io poco più di un bambino. E’ stato uno degli eroi di una storia irripetibile. E per questo meravigliosa. Almeno ai miei occhi. D’Amico per me è la fedeltà ad una squadra. Mai tradita. Neppure quando nell’estate del 1980 si trasferì al Torino per sostituire Claudio Sala. Una decisione imposta dalle difficoltà economiche della Lazio. Da nient’altro. Tanto è vero che dopo un solo anno tornò. Nonostante la sua squadra fosse in “B”. Tornò e fece sfracelli, risultando alla fine del campionato il miglior realizzatore della Lazio, con 10 reti. E la storia ricominciò il suo corso. Fino all’estate del 1986, quando venne ceduto, definitivamente, alla Ternana. Fine della storia. Che però continuò “a distanza”. Perché d’Amico non ha mai smesso di essere laziale.

Provo una grande tristezza, lo ripeto. Per la sua morte. Che si porta via un altro pezzetto di me. Che chiude un altro spiraglio. Accrescendo quel che è stato, facendo diminuire quel che sarà.

Se potessi parlargli ora, forse gli direi proprio questo, chiamandolo ancora per nome, “Vincenzo, grazie”. Glielo direi, pensando di rivolgermi all’esile ventenne che nel 1974 vinse lo scudetto. E alla fine mi firmerei, “un tuo piccolo tifoso”. In fondo il tempo non trascorre mai, se lo vogliamo.

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