L’annus horribilis del post scudetto è quasi alle spalle per il Napoli: mancano quattro partite e le speranze di entrare in Champions sono ormai nulle e pare difficile ormai pure entrare in Europa dalla porta di servizio. Insomma è già tempo di pensare al futuro, e molto a riguardo dirà la scelta del prossimo allenatore azzurro. Sì, perché la stagione in via di conclusione e relativo disastro sono ascrivibili principalmente all’eliminazione totale di tutti quelli che erano stati i punti di riferimento dello scudetto. Spalletti, Giuntoli, Kim, Sinatti (che poi è tornato) e persino lo storico direttore marketing Formisano. Tutti andati via per scelta propria, si badi, e non mandati via da De Laurentiis che, anzi, li avrebbe trattenuti: basta pensare alla pec inviata a Spalletti per esercitare il rinnovo unilaterale in favore della società, o al tempo che il patron azzurro si è preso per lasciare libero Giuntoli di andare alla Juventus.

Ma se Kim Minjae è andato via dopo un solo anno per le regole del calcio e non per altri motivi all’infuori dell’offerta irrinunciabile che gli era arrivata, per gli altri c’è da guardare anche al rapporto difficile col patron. Un rapporto difficile che subentra quasi sempre laddove un elemento diventa un’icona, un punto di riferimento del Napoli: lo era Spalletti, che ha fatto da parafulmine e catalizzatore delle energie dei calciatori, senza di lui apparsi come i bimbi sperduti senza Peter Pan. Lo era Giuntoli, erroneamente e banalmente raccontato come un Re Mida del mercato, dove invece di toppe ne ha prese parecchie (Verdi, Maksimovic, Ounas, Malcuit, Rog, Diawara e già così sono più di cento milioni per calciatori che hanno dato poco o nulla), capace invece di svolgere egregiamente quel difficilissimo ruolo di camera di decompressione tra due ambienti infuocati come lo spogliatoio e l’ufficio di presidenza azzurro. Di fatto venuti a mancare loro, Spalletti e Giuntoli, sono venuti a mancare circa quaranta punti, non cinque o sei.

Per questo la scelta del futuro allenatore dirà molto, non unicamente per una questione di prestigio. Perché se ad esempio la scelta ricadrà su Antonio Conte, al netto di un allenatore che odia perdere in senso letterale, non c’è solo il bollino garantito di un progetto quantomeno ambizioso, ma anche un segnale di volersi discostare dal modello “Sono io il vostro Cavani/Spalletti/Giuntoli/ecc” che nell’ultima stagione ha visto forse la sua deflagrante apoteosi tra mercato e scelte di tecnici e dirigenti. Se da un lato il giustissimo mantra dell’equilibrio dei conti va tenuto come luce guida anche con un allenatore esigente come Antonio Conte, è facilmente intuibile pure l’assai probabile rinuncia alle visite negli spogliatoi durante le gare, ad esempio, così come l’assidua presenza a Castel Volturno in settimana, per quanto ritenuta positiva almeno nelle intenzioni. Magari pure un limite alle intemerate verbali, ricordando che l’anno dello scudetto è coinciso anche, forse solo per puro caso, con sei mesi iniziali di silenzio totale. E appare difficile in tal caso pure lanciarsi in un mercato di scelte alla Natan e Cajuste: per quanto sia naturalmente impossibile, al netto dei soldi che arriveranno dalle cessioni (su tutte quella pressoché certa di Osimhen), immaginare una campagna acquisti in stile emiri.

Insomma, se arrivasse sulla panchina del Napoli un profilo alla Conte, o alla De Zerbi ma anche alla Gasperini, si avrebbe anche un segnale circa l’utilità della lezione di questa stagione: la capacità di fare un passo di lato, scandendo altri ritmi rispetto a quelli pittoreschi ma evidentemente non memorabili del one man orchestra. Diversamente una scelta in chiave aziendalista, come Stefano Pioli che pure risulta essere molto in alto nella lista dei papabili lascerebbe intendere una volontà di proseguire a tenere il timone ben saldo tra le mani virando sul profilo di un allenatore bravissimo senz’ombra di dubbio, ma evidentemente un sarto capace di utilizzare il materiale che gli viene messo a disposizione, senza particolari crucci tattici e che difficilmente entrerebbe in rotta di collisione con la proprietà su nomi e dettagli del progetto. I margini di rischio? Enormi entrambi, naturalmente: il fallimento di un progetto ambizioso con un allenatore ambizioso significherebbe prima di tutto perderci un sacco di soldi, mentre virare su un’opzione aziendalista e non tornare a splendere avrebbe tutto il sapore del ridimensionamento, in una piazza che con lo scudetto aveva sognato. Un sogno che a breve sarà nelle sale cinematografiche: se il resto sarà un cinepanettone o un bel sequel poi lo deciderà Adl.

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