di Claudia De Martino

L’Egitto uscito dal colpo di stato militare di Abdel Fatah al-Sisi nel 2013 non ha mai goduto di buone condizioni economiche, ma non è mai sembrato come oggi tanto vicino all’orlo del baratro, ovvero sul punto di affondare in una spirale di debito difficilmente sanabile.

A dicembre 2022 il Cairo ha siglato l’ultimo accordo con il Fondo Monetario Internazionale (FMI) per strappare 3 miliardi di dollari di prestiti aggiuntivi per finanziare il proprio debito pubblico, oggi attestato sui 163 miliardi di dollari e stimato pari al 95% del Pil. Una situazione economica di crescente affanno che è dovuta alle grandi crisi mondiali degli ultimi anni – in particolare l’epidemia da Covid-19 e lo scoppio della guerra in Ucraina, con il suo forte impatto sulla esportazione di grano di cui l’Egitto è il principale importatore -, ma anche legata a problemi strutturali che il Generale non è riuscito o non ha voluto affrontare, pena una nuova ondata di instabilità nel Paese.

Fino ad oggi, infatti, il canale preferito dal governo egiziano per ridurre il deficit di investimenti esteri è stato quello dell’assistenza finanziaria da parte dei Paesi del Golfo, e in particolare di Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita – più flessibile di quella di Fmi e Banca Mondiale in quanto esente da vincoli formali. Tuttavia, nell’aprile 2022, durante una visita del Presidente Morsi a Jeddah tesa ad assicurarsi un’ulteriore tranche di aiuti da Riyadh, il ministro saudita delle Finanze Mohammed al-Jadaan ha reso nota l’intenzione di coordinare i prestiti sauditi con quelli del Fmi, sottomettendoli alle stesse regole di quest’ultimo, ovvero vincolandoli alla necessità di riforme, segnalando la chiusura di un’epoca post-Primavere arabe in cui le sovvenzioni dei Paesi del Golfo all’Egitto erano pressoché incondizionate. Solo formalmente, perché in realtà la dipendenza del Cairo dai Riyadh aveva già comportato la cessione all’Arabia Saudita delle isole egiziane di Tiran e Sanafir nel Mar Rosso nel 2017 come forma di compensazione per i prestiti elargiti dal 2013.

Ma quali sono i limiti strutturali dell’economia egiziana ai quali Morsi non ha voluto o potuto porre rimedio?

Ad una popolazione prossima ai 106 milioni, con altissimi tassi di analfabetismo (25% ad oggi) e povertà (26.7% nel 2012, oggi salita a circa il 30% dopo la forte svalutazione della lira egiziana dal 2016), il Presidente annunciò nel 2013 l’avvio di una nuova stagione di sviluppo, articolata nel varo di giganteschi progetti urbanistici e infrastrutturali che avrebbero modernizzato il volto del Paese: il piano per un milione di nuovi alloggi popolari con il parallelo smantellamento degli slums alle appendici delle grandi città, nuove passeggiate sul lungomare di Alessandria, il raddoppio del Canale di Suez, la costruzione di una nuova megalopoli tecnologica con funzioni amministrative e futura capitale nel deserto a circa 32 km dal Cairo, l’edificazione di un reattore nucleare per la produzione di elettricità, la costruzione di 1350 km di nuove strade e di una linea ferroviaria ad alta velocità tra il Cairo e il Mar Rosso.

Tutto questo senza considerare le coperture finanziarie necessarie a realizzare queste opere, che ora giacciono avviate ma non concluse, mentre l’altissima inflazione erode le poche riserve di valuta straniera residue detenute dalla Banca d’Egitto e gli investimenti stranieri languono. Il Cairo non è infatti riuscito a rassicurare i potenziali investitori esteri sulla fluttuazione della sua moneta e sulla competizione sleale esercitata dalla galassia di aziende di stato detenute dall’Esercito, che, esentate da tasse (anche da imposta immobiliare e dalla nuova Iva introdotta nel 2016 a seguito delle riforme indotte dal Fmi) e da barriere tariffarie e doganali in ingresso e uscita dal Paese, nonché utilizzando la manodopera gratuita fornita dai soldati di leva (438.000 circa in servizio a cui si sommano le riserve), riescono a immettere sul mercato egiziano prodotti commerciali a metà del costo degli operatori privati.

Gli alti gradi dell’esercito, gli stessi che hanno posto al-Sisi al potere – espressione dei tre poteri del Ministero della difesa, del Ministero della produzione militare e dell’Organizzazione araba per l’industrializzazione (Aoi) – hanno infatti visto il loro volume d’affari in forte crescita negli ultimi anni, arrivando oggi a possedere una sessantina di società operanti in numerosi settori produttivi e strategici, come il petrolio (Wataniya Petroleum), armi e vernici (Heliopolis Co.), la commercializzazione di acque (Safi), imprese edili (Maadi Co.) e di produzione di cemento (El Arish Cement Co.), alcune delle quali persino quotate in borsa. Infine, l’ultimo business delle forze armate è stata la produzione cinematografica, realizzata attraverso una società semi-monopolistica (la Synergy Art Production), nota per le sue produzioni nazionaliste incentrate sulla celebrazione dell’eroismo del popolo egiziano e sulla glorificazione postuma del colpo di stato.

L’Fmi e persino i Paesi del Golfo premono perché siano introdotte delle riforme che liberalizzino il mercato egiziano e affinché le industrie militari non siano più un feudo governativo protetto ma aperto alla partecipazione di privati, ma finora al-Sisi non sembra voler cedere su questo punto, temendo un nuovo colpo di stato militare che lo possa estromettere dal potere. Piuttosto, il Governo considera la possibilità di svendere i beni pubblici, la cui proprietà è stata trasferita nel 2018 alla gestione di un opaco Fondo sovrano egiziano, che potrebbe cedere quote del patrimonio ai Paesi del Golfo a compensazione dei prestiti ricevuti.

Sullo sfondo resta una massa inerme di cittadini egiziani che scivola sempre di più nella povertà e nell’inerzia senza alcuna possibilità di incidere sulle scelte del Paese, costantemente intimorita dal ricordo dalla “guerra civile” consumatasi nel 2013 e dalla silenziosa presenza di quei 66mila prigionieri politici, ancora detenuti nelle carceri del regime, che rappresentano un monito contro qualsiasi velleità di resistenza al dittatore.

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