“Prego pertanto il Signore che mi dia grazia di fare della mia prossima morte dono, d’amore alla Chiesa. Potrei dire che sempre l’ho amata; fu il suo amore che mi trasse fuori dal mio gretto e selvatico egoismo e mi avviò al suo servizio; e che per essa, non per altro, mi pare d’aver vissuto. Ma vorrei che la Chiesa lo sapesse; e che io avessi la forza di dirglielo, come una confidenza del cuore, che solo all’estremo momento della vita si ha il coraggio di fare”. Così san Paolo VI, nel suo celebre Pensiero alla morte, salutava la sua unica sposa, quella Chiesa che aveva sempre amato e servito in tutta la sua vita. Quella Chiesa che non gli aveva di certo risparmiato sofferenze, incomprensioni e isolamenti, ma che mai aveva rinnegato.

Esattamente 60 anni fa, il 21 giugno 1963, il conclave eleggeva Papa l’arcivescovo di Milano, il cardinale Giovanni Battista Montini. Una scelta più che scontata, soprattutto dopo che la prima sessione del Concilio Ecumenico Vaticano II, fortemente voluto, indetto e aperto da san Giovanni XXIII, non aveva dato i frutti sperati. Montini, in quel momento delicatissimo della storia della Chiesa di Roma, era l’unico in grado di portare in un porto sicuro la nave del Concilio. E così fu. San Paolo VI, in quindici anni di pontificato, ha scritto un magistero difficilmente eguagliabile. Il suo stile inconfondibile, con la sua fede rocciosa e tormentata allo stesso tempo, ha portato la Chiesa cattolica al centro del mondo e ne ha fatto risplendere l’indiscussa autorità morale mondiale.

“Vorrei – scrive sempre nel Pensiero alla morte – finalmente comprenderla tutta nella sua storia, nel suo disegno divino, nel suo destino finale, nella sua complessa, totale e unitaria composizione, nella sua umana e imperfetta consistenza, nelle sue sciagure e nelle sue sofferenze, nelle debolezze e nelle miserie di tanti suoi figli, nei suoi aspetti meno simpatici, e nel suo sforzo perenne di fedeltà, di amore, di perfezione e di carità. Corpo mistico di Cristo. Vorrei abbracciarla, salutarla, amarla, in ogni essere che la compone, in ogni vescovo e sacerdote che l’assiste e la guida, in ogni anima che la vive e la illustra; benedirla. Anche perché non la lascio, non esco da lei, ma più e meglio, con essa mi unisco e mi confondo: la morte è un progresso nella comunione dei santi”.

Molti ricordano san Paolo VI per la sua supplica alle Brigate Rosse per l’incolumità del suo grande amico Aldo Moro. Altri per aver chiuso la porta a ogni tipo di contraccezione nella sua storica e contestatissima enciclica Humanae vitae, non a caso l’ultima del suo pontificato, benché scritta dieci anni prima del suo termine. Ma Montini è stato molto di più. È stato un autentico innamorato della Chiesa. È stato un grande evangelizzatore, come era stato l’apostolo delle genti di cui da Papa assunse il nome. È stato il primo Pontefice a prendere l’aereo e a fare dei viaggi apostolici un efficace strumento di governo della Chiesa. È stato il primo vescovo di Roma a tornare lì dove il cristianesimo ha avuto origine, in Terra Santa. È stato il primo Papa a parlare all’Onu in nome di quella Chiesa esperta in umanità.

Montini ha sofferto forse come nessun vescovo di Roma prima e dopo di lui. Ma quella sofferenza non lo ha annebbiato, non lo ha sconfitto e non lo ha piegato. Bensì lo ha reso ancora più consapevole della profonda solitudine che è connaturale al ruolo del capo della cattolicità. Un ruolo che non fu facile per il primo Pontefice, san Pietro, e che non lo è nemmeno oggi per Papa Francesco. All’indomani della sua elezione, san Paolo VI scrisse: “Bisogna che mi renda conto della posizione e delle funzioni che ormai mi sono proprie, mi caratterizzano, mi rendono inesorabilmente responsabile davanti a Dio, alla Chiesa, all’umanità. La posizione è unica. Vale a dire che mi costituisce in una estrema solitudine. Era già grande prima, ora è totale e tremenda… Anzi, io devo accentuare questa solitudine: non devo aver paura, non devo cercare appoggio esteriore che mi esoneri dal mio dovere, quello di volere, decidere, assumere ogni responsabilità… E soffrire solo: io e Dio!”.

A 60 anni dalla sua elezione è necessario domandarsi quale sia l’eredità di san Paolo VI. Essa è contenuta in uno dei suoi documenti più celebri e di un’attualità straordinaria, l’esortazione apostolica Evangelii nuntiandi, datata 8 dicembre 1975. Un testo a cui si richiama spesso Francesco, collegandolo anche alla sua esortazione apostolica programmatica, Evangelii gaudium. C’è tutto il Montini missionario in quel documento profetico che ha tanto da insegnare alla Chiesa di oggi, soprattutto alla luce della sua scelta decisamente sinodale. Fu proprio san Paolo VI a istituire il Sinodo dei vescovi come proseguimento di quel lavoro collegiale che aveva dato frutti abbondanti durante le tre sessioni del Vaticano II svoltesi sotto la sua guida sapiente. Un tesoro prezioso anche per il futuro.

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