Non si coglie a pieno la valenza del disegno di legge governativo sulla riforma dell’ordinamento giudiziario se ci si limita a ipotizzare le sue ricadute dirette, dopo che avrà passato il vaglio parlamentare. L’abrogazione del reato di abuso d’ufficio, il depotenziamento del reato di traffico di influenze illecite, l’ulteriore stretta alla pubblicazione delle intercettazioni sono soltanto tasselli di uno schema politico più ampio, del quale si cominciano a cogliere tanto la matrice, d’impronta neo-autoritaria, che il dispiegarsi della trama.

L’esecutivo Meloni ha sfruttato l’onda emotiva della scomparsa di Silvio Berlusconi, al quale in modo significativo viene dedicato il provvedimento, per perseguire finalità analoghe a quelle dei tanti “colpi di spugna” tentati o attuati dal defunto leader di Forza Italia – uno dei quali, poi rientrato, coincise con l’estasi collettiva dopo la vittoria della squadra italiana nelle semifinali dei Mondiali di calcio del 1994. Da qualunque parte lo si guardi, il provvedimento segna un indebolimento dei presidi anticorruzione faticosamente istituiti dal 2012, con l’approvazione della cosiddetta legge Severino. Proprio quest’ultima già si trova nel mirino della foga abrogazionista dell’esecutivo: si vedano i bellicosi intenti del ministro della Giustizia di cancellare la norma che impedisce la candidatura di politici condannati in primo grado per reati contro la pubblica amministrazione.

La riforma più dibattuta sancisce l’abrogazione dell’abuso d’ufficio: questo farà dell’Italia un unicum nel panorama europeo, in controtendenza con la raccomandazione della Commissione Europea che – complice il Qatargate – avrebbe indirizzato i governi nazionali verso l’inasprimento e l’affinamento degli strumenti di repressione della corruzione. Per capire la portata dell’intervento – limitandoci a parafrasare il corrispondente articolo del codice penale – resteranno impuniti il politico o il funzionario che nello svolgimento delle loro funzioni abbiano violato regole di condotta previste dalla legge, ad esempio deliberando in condizioni di conflitto di interessi, e così procurato intenzionalmente a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale, o arrecato ad altri un danno ingiusto.

C’è qualcosa di illogico nelle giustificazioni addotte per un intervento così radicale. L’abroganda norma sull’abuso era stata infatti riformata di recente, giusto per renderla meno “urticante” per gli amministratori. Missione compiuta, verrebbe da dire, al punto che nel 2021 su 5418 procedimenti avviati ci sono state appena 27 condanne e 35 patteggiamenti. Ma oltre l’85 per cento dei procedimenti sono stati archiviati, senza colpo ferire né danno d’immagine per gli imputati.

Ci si potrebbe chiedere da dove scaturisca la famigerata “paura della firma” che attanaglierebbe i funzionari pubblici paralizzando i processi decisionali, quando questi ultimi – dati alla mano – hanno già piena consapevolezza di rischiare poco o nulla in termini penali dall’applicazione di quella norma. Davvero si possono imputare la lentezza e l’inerzia delle procedure che ingolfano la macchina amministrativa a questo presunto “timore della responsabilità” per abusi illegittimi di potere? Piuttosto che legalizzare le violazioni di legge dei funzionari pubblici, sarebbe necessario definire in modo più chiaro e inequivoco il tipo di condotte che quella fattispecie intende perseguire: basterebbe fare un copia-incolla della traduzione italiana dell’equivalente norma francese, tedesca, spagnola, o magari svedese.

Ma la cancellazione ha ben altra funzione, non dichiarata né dichiarabile, eppure palese: ostacolare l’azione dei tanti magistrati che hanno utilizzato indagini sul reato di abuso d’ufficio come “grimaldello” per cogliere anomalie, rilevare e scardinare circuiti di corruzione altrimenti inattaccabili per la connivente omertà di tutti partecipanti – tanti dei quali, visto il clima politico nazionale, presumibilmente affiliati proprio alla maggioranza di governo.

Va nella medesima direzione anche il depotenziamento della fattispecie di traffico di influenze illecite, che punisce l’azione dei mediatori che legano tra loro corrotti e corruttori. Possiamo aspettarci che la restrizione nel raggio di applicazione della norma alle sole contropartite di tipo economico poi effettivamente versate ai decisori pubblici apra praterie ai tanti faccendieri che sgomitano nei paraggi dei centri di spesa pubblica, sfruttando contatti sotterranei e relazioni privilegiate coi decisori.

Si restringe ulteriormente la possibilità per la stampa di pubblicare i contenuti delle intercettazioni, così impedendo ai cittadini di conoscere e giudicare condotte dei propri rappresentanti pure rilevanti politicamente, oltre che eticamente. E già si profila all’orizzonte, in diverse esternazioni del guardasigilli, la stretta complessiva nell’utilizzo di questo strumento di acquisizione delle prove – guarda caso impedendone l’impiego proprio nelle fattispecie di reato che più turbano i sonni dei potenti, ossia i crimini dei colletti bianchi. Ecco che lo pseudo-garantismo sbandierato così fieramente dall’esecutivo si converte nella sua parodia, una garanzia selettiva d’impunità per gli “utilizzatori finali” di denaro, potere, relazioni.

Si coglie un più vasto disegno politico sottostante, rispetto al quale la mini-riforma dell’ordinamento giudiziario è da leggersi in coerenza e continuità con la recente abrogazione dei controlli in itinere della Corte dei Conti, col depotenziamento del ruolo dell’autorità anticorruzione, col controllo egemonico della televisione pubblica, con l’occupazione manu militari dei ruoli di garanzia. Segni dell’insofferenza di questa maggioranza nei confronti dei meccanismi istituzionali di salvaguardia dello Stato di diritto, tra cui l’indipendenza della magistratura e dell’informazione, a presidio dell’uguaglianza dei cittadini di fronte alla giustizia.

Se l’obiettivo è l’accelerazione forzosa dei processi decisionali e degli appalti, così da spendere in tempo utile l’illusoria manna dei miliardi Pnrr, il contesto politico-amministrativo criminogeno che si va delineando finirà per indirizzare una quota cospicua della spesa pubblica non tanto nella realizzazione di interessi collettivi, quanto piuttosto a soddisfare la voracità di mafiosi, corrotti e corruttori.

Del resto, è al modello ungherese di “democrazia illiberale” che neppure troppo velatamente l’attuale maggioranza sembra ispirarsi per orientare nel prossimo decennio le direttrici di un’involuzione istituzionale neo-autoritaria. E, non a caso, l’Ungheria soggiogata dal padre-padrone Orbàn è afflitta da una corruzione tanto endemica quanto istituzionalizzata, che si gioca nel connubio incestuoso tra l’inamovibile élite al potere e i potentati economico-finanziari, impermeabili rispetto alla formale supervisione di magistratura e stampa ormai ridotte con guinzaglio e museruola.

È l’Ungheria il futuro dell’Italia?

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