Il sindaco, gli assessori e i dirigenti comunali che due giorni prima delle elezioni annullarono gli avvisi di pagamento dell’Ici. Il medico del Servizio sanitario nazionale che convinse i pazienti a rivolgersi al suo studio privato. Il primo cittadino che revocò l’incarico a un dirigente “colpevole” di essersi candidato contro di lui alle elezioni. Il carabiniere che, irritato dal rifiuto delle proprie avances, per ritorsione obbligò due ragazze a farsi identificare e attendere l’arrivo di una pattuglia. Il pm che per vendetta chiese il rinvio a giudizio dell’ex della sua compagna. Sono tutti esempi reali di pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio condannati in via definitiva per abuso d’ufficio, cioè per aver approfittato del proprio potere avvantaggiando o danneggiando ingiustamente qualcun altro, violando una legge o un regolamento. A raccoglierli è stata un’assegnista di ricerca dell’Università Statale di Milano, Cecilia Pagella, in un articolo pubblicato sulla rivista Sistema penale. Da domani, se la riforma della giustizia proposta dal Guardasigilli Carlo Nordio sarà approvata dal Parlamento, quelle condanne non esisteranno più: saranno cancellate con effetto retroattivo grazie all’abrogazione dell’articolo 323 del codice penale. L’eliminazione dall’ordinamento di un reato, infatti – a differenza di una semplice riformulazione della norma – travolge anche le condanne passate in giudicato. Con quale effetto? Nessuno svuotacarceri, perché finire in prigione per abuso d’ufficio è quasi impossibile. Ma con la “ripulitura” della loro fedina penale, i condannati potranno usufruire di nuovo della sospensione condizionale della pena in caso di commissione di nuovi delitti, oppure evitare l’aggravamento dovuto alla recidiva. E non parliamo di numeri irrisori: nel casellario giudiziale risultano 3.623 sentenze definitive iscritte dal 1997 al 2022, una media di 140 all’anno.

Nell’articolo della studiosa si trova una ricca casistica tratta dalle massime della Cassazione, cioè la raccolta dei principi di diritto estratti dalle sentenze della Suprema Corte. Qualche altro esempio per calarsi nel concreto: “Il sindaco impediva l’occupazione del suolo pubblico alla titolare di un bar per scopi ritorsivi” (Sezione VI, 17 settembre 2019). “Dequalificazione di una struttura e conseguente demansionamento del suo responsabile da parte del direttore generale dell’ospedale” (Sezione VI, 18 luglio 2019). “Confezione di un falso verbale di accertamento di un’infrazione amministrativa in realtà non commessa” (Sezione V, 7 luglio 2017). “Il sindaco e il responsabile di un ufficio tecnico del Comune autorizzavano la costruzione di un alloggio antisismico in assenza di presupposti” (Sezione III, 6 aprile 2016). “Il sindaco revocava l’incarico a un ingegnere che aveva rigettato diverse istanze che riguardavano immobili di sua proprietà” (Sezione VI, 12 giugno 2014). Insomma, altro che reato “evanescente, buono solo a intasare le Procure, come lo ha definito Nordio: sono i fatti a dimostrare che l’abuso d’ufficio è una fondamentale norma di chiusura del sistema, indispensabile per colpire “episodi di malaffare in odore penalistico non inquadrabili in altre fattispecie dai contorni meglio definiti, come la corruzione, il traffico di influenze illecite, il peculato o la turbativa d’asta”, come scrive, sempre su Sistema penale, il professor Gian Luigi Gatta, ordinario di Diritto penale alla Statale e già consulente giuridico dell’ex ministra Marta Cartabia. Al fattoquotidiano.it Gatta ricorda la discussione in sede europea sulla direttiva anticorruzione proposta dalla Commissione dopo il Qatargate, che obbligherebbe gli Stati membri a punire l’abuso d’ufficio, esponendo l’Italia al rischio di una procedura d’infrazione: “In questo senso la riforma mi sembra intempestiva. Io avrei lasciato le cose come stavano, in attesa che si chiarisca il quadro in Europa”, dice. E sottolinea anche un altro aspetto: “Mentre si vorrebbe cancellare l’abuso d’ufficio, si lascia in vigore l’omissione o il rifiuto di atti d’ufficio, un reato meno grave. Paradossalmente, al pubblico ufficiale converrà usare il proprio potere per favorire o danneggiare qualcuno piuttosto che non esercitarlo”.

Le stesse preoccupazioni le manifestano i magistrati, che rischiano di non poter più perseguire comportamenti evidentemente rilevanti sul piano del disvalore. “Ha presente il commissario che tentò di truccare il penultimo concorso in magistratura, favorendo un candidato? Non sarebbe più punibile. Se da domani io, pubblico ministero, decidessi di affidare ogni perizia e consulenza ad amici e parenti, non rischierei più nulla sul piano penale, ma soltanto conseguenze disciplinari”, spiega al fattoquotidiano.it Stefano Celli, sostituto procuratore a Rimini e membro del Comitato direttivo centrale dell’Associazione nazionale magistrati (il “parlamentino” di giudici e pm) in quota Magistratura democratica, la storica corrente di sinistra. Celli, che si è occupato per vent’anni di reati contro la pubblica amministrazione, smentisce un altro cliché ripetuto da Nordio e dall’ala “garantista” della maggioranza: l’idea che la sola esistenza dell’abuso basti a non far dormire i primi cittadini di tutta Italia, terrorizzati dal rischio di finire sotto inchiesta. “La “paura della firma” dei sindaci ormai è sostanzialmente una bufala“, afferma. “Nel corso degli anni la fattispecie è stata progressivamente svuotata, mentre lo standard probatorio richiesto si è alzato a dismisura. Dopo la riforma del 2020 (inserita nel dl Semplificazioni dal governo Conte 2, ndr) è quasi impossibile che un sindaco sia indagato per abuso d’ufficio: resta punibile solo il pubblico ufficiale che violi “specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità”. Gli atti dei sindaci e degli assessori, invece, sono praticamente sempre discrezionali, perché la legge assegna loro soltanto le “funzioni di indirizzo e controllo politico-amministrativo”: tutto il resto spetta ai dirigenti”. Il ragionamento, in effetti, è dimostrato dai numeri: se nel 1997 (primo anno censito negli archivi) le condanne definitive per abuso d’ufficio erano state 546, vent’anni dopo, nel 2017, scendono a 104, per poi calare ancora a 79 nel 2018, a 62 nel 2019, a 44 nel 2020, a 40 nel 2021 e ad appena sei nel 2022, quando l’ultima riforma ha appena cominciato a produrre i suoi effetti. Ma al governo, forse, della “paura della firma” non è mai importato davvero granché.

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