La mafia fa paura, ma anche lo Stato, a volte.

Resto colpito nel leggere che calano in maniera significativa le denunce delle vittime di usura e di racket, considerati ai fini di questo ragionamento come reati-fine posti in essere da organizzazioni di stampo mafioso, visto che questi reati non sono appannaggio esclusivo di simili organizzazioni. Che cosa mi stupisce? Non tanto il dato in sé, triste nella sua inoppugnabilità: per quanto riguarda il Piemonte (come riportato recentemente da Giuseppe Legato su La Stampa), in 12 anni (dall’inchiesta Minotauro) e almeno 18 processi celebrati, che hanno riguardato e riguardano gli affari illeciti di criminalità mafiosa, in particolare ‘ndrangheta, imprenditori, politici e professionisti, le denunce da parte delle vittime sono state davvero pochissime. Un dato inquietante. Ma a cosa addebitarlo?

Certamente alla forza di intimidazione delle mafie, che appunto fanno paura. Poi alla convenienza che purtroppo alcuni si illudono di cavare da un rapporto di convivenza con queste organizzazioni. Ma esiste almeno una terza causa del crollo delle denunce: la mancanza di fiducia nello Stato. E di questa terza causa bisognerebbe avere il coraggio di parlare, proprio per cancellarla o renderla quanto meno residuale, scommettendo non tanto sulle buone norme (che per lo più ci sono), ma soprattutto sulla capacità professionale e sui valori democratici che animano gli addetti ai lavori, siano essi appartenenti alle Forze dell’Ordine, alla magistratura o agli apparati amministrativi.

Perché non ci si fida dello Stato?

Perché troppo spesso le storie di chi denuncia sembrano dei moniti al contrario, storie cioè che parlano di iter tortuosi sia sul piano amministrativo sia sul piano giudiziario, che durano anni, che costano tanti soldi, che ammalano e che offendono. Vittime di racket che denunciano, diventando testimoni fondamentali per l’accusa in tribunale, che poi attendono per più di dieci (10!) anni quei ristori che la legge prevede che siano erogati in pochi mesi, quando la denuncia sia ritenuta autentica dal Pubblico Ministero. E questo a prescindere che ad essere denunciato sia un mafioso o meno.

Testimoni di giustizia sottoposti alle speciali misure di protezione o al programma speciale di protezione che si vedono costretti ad una continua negoziazione con il Servizio centrale e con la Commissione centrale presso il Ministero dell’Interno, come se ricevessero dei favori e non il normale e giusto sostegno da parte dello Stato in ragione del pericolo concreto e attuale a cui sono sottoposti, a causa delle informazioni che hanno saputo e voluto offrire a chi indaga.

Testimoni di giustizia fuori usciti dal programma di protezione, ma che restano a rischio della vita e che per questo devono essere tutelati dallo Stato, che si vedono informati laconicamente della sospensione di ogni tutela, senza che qualcuno si prenda la briga di comunicare sulla base di quali evidenze si sia potuto ritenere cessato il pericolo per il testimone e per i suoi congiunti.

Talvolta le modalità tenute nei confronti di queste persone sono intimidatorie, e non hanno bisogno di esprimersi con la violenza per essere tali, giacché la violenza sta in sé nell’abuso della posizione preminente: lo Stato ha in mano niente meno che la vita di queste persone. A volte si ha l’impressione che siano vere e proprie rappresaglie, quando il testimone o la vittima di turno abbia fatto un ricorso al Tar o abbia raccontato la propria storia in un libro o in un servizio televisivo.

Queste storie diventano veri e propri “spaventapasseri”: se denunci finisci come Tizio o Caio. Meglio farsi i fatti propri.

Certo oggi, con una presidente del Consiglio che parla di “pizzo di Stato”, l’aria che tira è peggiorata in maniera vergognosa e il rischio che ci si senta dei fessi a rispettare la legge è più alto. E non ha aiutato aver preso a ceffoni i familiari delle vittime del terrorismo e della mafia, pretendendo la nomina di Chiara Colosimo a presidente della Commissione parlamentare Antimafia.

Ma sono convinto che ci siano tutte le risorse per sanare questa situazione e, come scrivevo all’inizio, queste risorse stanno principalmente nella professionalità e nei valori della stragrande maggioranza di chi agisce in nome della legge. L’ho pensato di nuovo in questi giorni leggendo i comunicati unitari dei principali sindacati di Polizia a seguito dei gravi fatti di Verona: in quei comunicati i sindacati, fermo restando il principio della presunzione di innocenza, definiscono deplorevoli le condotte addebitate ai loro stessi colleghi, sottolineano come le indagini siano state delegate dall’Autorità Giudiziaria al medesimo reparto al quale gli accusati appartenevano in ragione della fiducia che si nutre per quella articolazione dello Stato e auspicano un confronto urgente con il governo perché si adottino quei cambiamenti che questi sindacati propongono da anni, a maggior tutela per tutti.

Ecco, a prescindere da ciò che faranno in tal senso Piantedosi&C., sarebbe fondamentale che anche le opposizioni a questo governo prestassero la dovuta attenzione, definendo una puntuale e condivisa agenda di interventi non più rimandabili.

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