La cultura della piccola impresa avanza, anche se a piccoli passi e avversata istituzionalmente. Si fa strada con un movimento che premia più la costanza che la velocità. Ma questo è positivo perché i fuochi di paglia non servono a nessuno. Un esempio? Un mio cliente ha utilizzato il termine “capitale umano” nel breve messaggio rivolto ai suoi dipendenti in occasione del 30° anniversario della fondazione dell’azienda, ribadendo che “i contrasti rafforzano i confronti e stimolano la crescita”.

Mi sono meravigliato al punto da pensare di essere una comparsa in Volevo solo dormirle addosso, un film del 2004 diretto da Eugenio Cappuccio e tratto dall’omonimo romanzo di Massimo Lolli, in cui uno straordinario Giorgio Pasotti interpreta un manager trentenne (Marco Pressi) che accetta una difficile sfida professionale ed umana: licenziare in tempi brevissimi 25 dipendenti dell’azienda per cui lavora che, paradossalmente, ha come pay-off lo slogan “People First”. Dovrà vincere diverse resistenze interne per convincersi che si tratti di una falsità: lui non può e non deve provare compassione per nessuno e deve raggiungere l’obiettivo evitando il comprensibile conflitto.

Dobbiamo essere realisti. È vero che ormai – dopo molti anni – si è arrivati a scriverlo anche in italiano, Capitale Umano, ma si continua a leggere e a declinarlo, più o meno, come ai tempi della Grande Guerra: carne da cannone. Magari utile per la distribuzione di una birra in modo da infondergli il coraggio di balzare fuori dalle trincee sotto il fuoco delle mitragliatrici nemiche. Anzi, negli Stati Uniti, negli anni 90 del secolo scorso, fu addirittura coniato l’espressione “to put you through the mincer”, cioè il tritacarne, per indicare gli impietosi trattamenti riservati alle persone in azienda.

Un tema della cultura d’impresa che andrebbe approfondito è proprio quello della mediazione nei conflitti interni all’azienda. Infatti, a prescindere dal contesto congiunturale esterno, le modalità con le quali una piccola azienda prevede, affronta e gestisce il conflitto sono elementi rivelatori della cultura della singola organizzazione.

Nella maggior parte delle piccole imprese (ecco perché mi sono meravigliato tanto) l’assenza di conflitto (confronto) produce la cosiddetta “stupidità funzionale”, quell’atteggiamento per il quale viene richiesto alle risorse umane di attenersi solo a pratiche consolidate e alle direttive dei vertici aziendali, anche quando le ritengono migliorabili o addirittura errate; uno dei grandi limiti delle piccole aziende tricolori, soprattutto perché imbrigliano la creatività e la possibilità di migliorarsi in favore di un usato neanche troppo sicuro.

In queste condizioni le imprese, invece di investire sulla formazione per lo smussamento degli angoli e guardare al “conflitto creativo” come efficace strumento di lavoro, si chiudono a riccio e mettono i sacchetti di sabbia alle finestre di uffici e capannoni. In questo momento se vai dall’amministratore delegato a parlargli di investimenti, invece che di taglio dei costi, rischi di vederti bocciata anche la ancora più necessaria formazione tecnica.

È inutile che ce lo nascondiamo: la formazione (insieme a pubblicità e comunicazione) è una delle prime voci a venire falcidiata quando i budget non tornano. Ed è sempre più difficile spiegare che questa non è un costo, ma un investimento per la valorizzazione del capitale umano.

In effetti il conflitto, se non ci fosse, bisognerebbe inventarlo, anche “per valorizzare le ricchezze che esso nasconde, nelle diversità”. Molte volte lo si è fatto, spesso con successo. Il problema vero è tenerlo sotto controllo, evitare che degeneri, individuare sistemi per gestirlo e comporlo in modo intelligente e proficuo. Se il conflitto viene trattato quale prova da superare, problema da risolvere e non semplicemente da rimuovere (la cosa peggiore), può diventare fonte di benessere e di ricchezza.

Non diceva forse Eraclito che “la guerra è la madre di tutte le cose” ove guerra è il conflitto tra gli opposti che genera quel continuo divenire che esprime la realtà di ogni cosa.

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